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Controlli a distanza e controlli difensivi: cosa sono e quali sono i limiti.

Scritto da Giulia Germano

Sentenze CEDU n.61496/08 (Barbulescu c. Romania) e n.1874/13 (Lopez Ribalda c. Spagna)

Indubbiamente tra le tematiche più scottanti e controverse che le diverse imprese negli ultimi decenni si sono trovate ad affrontare, vi è quella relativa ai controlli a distanza a cui, in talune circostanze, il datore di lavoro sottopone il lavoratore dipendente. Tale argomento è divenuto tuttavia di prim’ordine in particolar modo a partire dal 2020, quando, a causa della pandemia e delle conseguenti misure restrittive adottate per prevenire e limitare la diffusione del virus COVID-19, numerose aziende hanno optato per porre i propri dipendenti in smart working e ciò ha incrementato la necessità dei datori di lavoro di verificare l’operato dei propri sottoposti. Inoltre, piuttosto dibattuta appare la questione dei cosiddetti “controlli difensivi”, controlli posti in essere dall’imprenditore nel caso in cui nutra dubbi e perplessità in merito alla correttezza di uno o più lavoratori. È sempre possibile verificare l’operato dei propri impiegati? È sempre possibile controllare ciò che questi ultimi svolgono nel corso dell’orario di servizio? Vi sono dei limiti imposti dalla legge? Il lavoratore ha diritto a inviare messaggi personali nel corso del proprio turno? In caso di eventuali sospetti sulla lealtà e sulla condotta dell’impiegato, come può comportarsi il datore di lavoro? Questi sono solo alcuni dei quesiti che sorgono spontanei quando ci si interroga in materia, quesiti a cui tenteremo di dare una risposta.

 Prima di analizzare ciò che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito in materia di controlli a distanza, appare opportuno comprendere quanto disposto dall’articolo 8 della CEDU (Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e, per quanto riguarda la normativa interna, quanto sancito dall’articolo 4 della legge 300/70, comunemente definita “Statuto dei lavoratori”.

L’articolo 8 CEDU prevede il diritto al rispetto della vita privata e famigliare. Ogni individuo ha infatti diritto al rispetto non esclusivamente degli aspetti sopracitati, ma anche del domicilio e della corrispondenza. Non può infatti esservi ingerenza da parte della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto, se non nei casi in cui quest’ultima sia prevista espressamente dalla legge e qualora costituisca una misura che, in uno Stato democratico, sia considerata necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del Paese, la prevenzione di reati e altri principi di primaria importanza e pertanto non trascurabili.

Per quanto concerne la normativa nazionale, bisogna far riferimento all’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori, in materia di “impianti audiovisivi e altri strumenti di controllo”. Questi, in quanto mezzi predisposti all’attività di controllo anche a distanza dell’operato dei lavoratori, possono essere impiegati esclusivamente per esigenze produttive e organizzative, nonché per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, inoltre potranno essere installati soltanto nei casi in cui sussista un accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale aziendale (RSA) ovvero  dalle rappresentanze sindacali unitarie (RSU) costituite nell’azienda in questione. La situazione si complica tuttavia, nel caso in cui ad impiegare tali strumenti siano imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione o in regioni differenti. In tale circostanza, infatti, l’accordo sindacale necessario ai fini dell’adozione di strumenti impiegati nel controllo dei lavoratori, potrà essere stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Tuttavia, in mancanza di tale accordo, gli impianti audiovisivi potranno essere installati previa autorizzazione della sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, dalla sede centrale dell’Ispettorato, nel caso in cui si tratti però di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali. Al terzo comma l’articolo in questione prevede in capo all’imprenditore l’obbligo di informare il dipendente sia della presenza degli strumenti predisposti all’attività di controllo e verifica, sia delle modalità con cui tale attività viene attuata, affinché sia rispettata la normativa dettata a tutela della privacy e nel rispetto del trattamento dei dati personali. Pertanto, le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 dell’art. 4  della legge 300/70, potranno essere validamente utilizzate ai fini connessi al rapporto di lavoro, a condizione che il lavoratore sia stato adeguatamente informato in merito alle modalità con cui il controllo viene posto in essere dalla società, nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo del 30 giugno 2003, n. 196.

Si pone quindi una differenziazione tra le diverse tipologie di strumenti impiegabili nell’attività di controllo: possiamo infatti distinguere tra strumenti di controllo in senso stretto, dove il lavoratore è soggetto passivo del controllo poiché non si rapporta in alcun modo con il mezzo (es. una telecamera o un microfono) e strumenti di lavoro con cui il lavoratore ha un’interazione diretta (es. il personal computer o il software). Nel primo caso preso in considerazione, lo Statuto dei lavoratori prevede, ai fini dell’installazione di uno strumento di controllo in senso stretto, l’obbligo di accordo sindacale o, in mancanza, un’autorizzazione amministrativa ad appannaggio dell’Ispettorato del lavoro, che sancisce le finalità che possono essere perseguite dal mezzo installato. Questi adempimenti non sono invece richiesti al datore di lavoro nel caso degli strumenti di lavoro (per i quali quindi non vi è necessità di ottenere un accordo sindacale ovvero un’autorizzazione di tipo amministrativo e per i quali non è necessario neppure che sussistano determinate finalità specifiche).

La giurisprudenza ha elaborato e recentemente confermato l’esistenza dei cosiddetti “controlli difensivi”, ossia quei controlli posti in essere dal datore di lavoro nel caso in cui nutra dei sospetti sul comportamento di determinati individui a seguito di eventi illeciti verificatasi sul posto di lavoro (esempio tradizionale consiste nelle ipotesi in cui si verifichi un ammanco di cassa in un supermercato). Ex art. 4, per poter accertare il furto commesso dal dipendente, l’imprenditore avrebbe dovuto sottoscrivere un accordo sindacale, ottenere un’autorizzazione amministrativa e soprattutto informare adeguatamente il dipendente del controllo in atto. È piuttosto chiaro ed evidente che una soluzione di questo tipo non avrebbe permesso al datore di perseguire il suo fine, ovvero accertare l’illecito, in modo tempestivo e, per questa ragione, la giurisprudenza ha previsto tale peculiare categoria di controlli che, nel caso in cui sussistano determinati requisiti, il datore può attuare senza doversi pedissequamente a quanto previsto dall’art.4 della legge 300/70 in materia di controlli a distanza. La giurisprudenza ha tuttavia delimitato tuttavia il campo di applicazione dei controlli difensivi affinché non vi fosse un abuso di questo strumento e la Corte di Cassazione è recentemente intervenuta per definire i requisiti che devono necessariamente sussistere per poter attuare il controllo difensivo. Innanzitutto è essenziale che ci sia il “fumus d’illecito”, ossia degli elementi dai quali si possa desumere la sussistenza di un fatto illecito; inoltre il controllo difensivo può avvenire esclusivamente ex post, quindi solo dopo aver accertato il fumus (es. furto in cassa), il datore potrà procedere con l’attività di vigilanza tramite appositi strumenti. Infatti, se lo stesso venisse attuato ex ante, si finirebbe per svuotare il senso dell’art. 4 poiché il lavoratore sarebbe sottoposto ad un controllo non motivato.

Per comprendere meglio i limiti che a livello comunitario sono stati posti ai controlli difensivi, appare opportuno analizzare due sentenze della CEDU in materia, la sentenza n. 61496/08, che vede contrapposti l’ingegnere Barbulescu e lo Stato della Romania e la sentenza n. 1874/13 in cui invece a contrapporsi sono Lopez Ribalda e la Spagna. Nel primo caso in questione, protagonista è un ingegnere che nel corso dell’orario di lavoro ha inviato messaggi dal contenuto strettamente personale utilizzando il personal computer e la rete internet messi a disposizione dalla società. Quest’ultima non aveva tuttavia correttamente informato il dipendente della possibilità che venisse sottoposto a un’attività di monitoraggio a distanza, a seguito della quale aveva accertato l’utilizzo di beni aziendali a scopi personali. L’azienda non si era inoltre limitata all’accertamento dell’illecito in modo continuativo, senza peraltro alcun limite temporale, ma si era persino spinta oltre trascrivendo e acquisendo il contenuto delle chat portate avanti dal dipendente con parenti e amici, fatto che lo ha spinto, a seguito del licenziamento, ad agire nei confronti della società.

Il secondo caso invece, tratta di un’impiegata di un supermercato che svolgeva la funzione di cassiera che, a seguito di un ammanco di cassa, è stata sottoposta ad un controllo difensivo per mezzo di una telecamera nascosta che riprendeva esclusivamente la sua postazione (e non l’intero luogo di lavoro) e istallata per un periodo di tempo limitato, ha visto concludersi il rapporto di lavoro poiché le immagini visionate accertavano la sua colpevolezza. La stessa ha tuttavia impugnato il licenziamento, ponendo in discussione la legittimità del monitoraggio da parte del supermercato.

La Corte EDU con sede a Strasburgo è intervenuta per definire una serie di parametri che, caso per caso, devono essere presi in considerazione per verificare se i giudici interni abbiano coerentemente applicato le norme comunitarie. Primo tra essi è l’informativa al dipendente, che deve infatti essere stato preventivamente e adeguatamente informato del controllo che la società potrebbe attuare. Il secondo aspetto che per la Corte è necessario considerare è l’estensione del monitoraggio da parte del datore di lavoro e il grado di intrusione dello stesso nella privacy del lavoratore: infatti il controllo non potrà avere durata illimitata ma dovrà essere limitato nel tempo e soprattutto proporzionato alle finalità perseguite (se lo scopo è ad esempio quello di accertare il furto, una volta acquisite le prove dell’illecito non sarà più necessario proseguire oltre). Terzo requisito è pertanto l’applicazione del principio di proporzionalità; il controllo deve limitarsi ad accertare il fatto e occorre verificare, non soltanto le conseguenze del monitoraggio, ma anche che il datore di lavoro abbia fornito motivazioni legittime per giustificarlo. Come si sono conclusi i casi analizzati alla luce dei requisiti elaborati dalla Corte? Il controllo posto in essere dalla società a discapito dell’ingegner Barbulescu è stato ritenuto illegittimo poiché nessuno dei requisiti comunitari è stato rispettato. Il lavoratore non era infatti stato informato preventivamente, inoltre il controllo non aveva avuto durata limitata temporalmente ma soprattutto non era stato proporzionato. Non è infatti ammesso né giustificato dalla Corte che il datore di lavoro abbia trascritto conversazioni personali e private del dipendente, alla luce del fatto che non era necessario ai fini dell’accertamento. Al contrario è stato ritenuto legittimo il controllo difensivo attuato nel caso Lopez Ribalda poiché, ad eccezione del primo requisito, i seguenti apparivano adeguatamente rispettati dal supermercato. Nonostante la dipendente non fosse stata preventivamente informata, il controllo è stato compiuto per un lasso di tempo limitato, rispettando il principio di proporzionalità, monitorando esclusivamente il soggetto su cui vertevano i sospetti, rispettando quindi la privacy e sussistendo valide motivazioni che giustificassero l’accertamento.

Possiamo pertanto concludere che è possibile porre in essere controlli difensivi qualora sussista il fumus d’illecito, qualora siano attuati ex post e nel caso in cui siano rispettati i requisiti sanciti dalla Corte EDU, altrimenti, come nel caso Barbulescu in cui la Romania è stata dichiarata inadempiente, l’attività di monitoraggio sarà da considerarsi illegittima.