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Presunzione Muciana: Le nuove correnti interpretative alla luce delle ultime pronunce giurisprudenziali

Scritto da Giovanni Profazio

Anche se per taluni versi incoerente, di grande rilievo, per la ricostruzione del diritto patrimoniale della famiglia, si rivela la decisione con cui la Consulta (n.286/1995) risponde ai giudici di legittimità. La Corte Costituzionale, pur ritenendo inammissibile la questione di legittimità costituzionale, avvalora l'incompatibilità dell'art. 70 l. fall. col nuovo diritto di famiglia per contrasto con i principi generali di cui agli artt. 143 ss. c.c. e con la specifica norma di salvaguardia di cui all'art. 193, comma 2, c.c.. Essa, infatti, allontana la questione dall'ambito strettamente costituzionale e la riporta alla incompatibilità tra norme di natura ordinaria prendendo innanzitutto le mosse dalle eccezioni di incostituzionalità mosse dalla Cassazione nella sentenza n. 13149 del 1995.
Si era già visto, infatti come il giudice rimettente dubitasse la costituzionalità della presunzione per contrasto con l'art. 3, comma 2, Cost., in relazione anche agli artt. 3, comma 1, 29 e 31, comma 1, Cost. per irragionevolezza sopravvenuta della norma nel quadro generale della nuova disciplina dei rapporti di famiglia (introdotta con legge 19 maggio 1975, n. 151), attuativa di valori costituzionali; con lo stesso art. 3, comma 2, Cost. per ulteriori aspetti di irragionevolezza riguardo a singoli istituti del nuovo diritto patrimoniale della famiglia ed infine con l'art. 3, comma 1, Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento in danno delle famiglie che abbiano scelto il regime di separazione dei beni od altro regime convenzionale in relazione a famiglie di fatto, ad altre forme di libera convivenza, e -all'interno della famiglia legittima- ai nuclei che hanno optato per il regime di comunione legale. Altri contrasti erano stati osservati con gli artt. 31, comma 1 (nella parte in cui richiede misure per agevolare la famiglia), 29 (nella parte in cui fonda la famiglia sul matrimonio) e 3, comma 1, Cost. (per il divieto di fare oggetto la famiglia di misure di sfavore). La Corte, svolta una breve analisi delle origini storiche dell'istituto e dei motivi che hanno condotto alla sua esclusione tra i coniugi in comunione legale (su cui appare superfluo soffermarsi), passa ad esaminare i quattro ordini di argomentazioni con cui l'ordinanza in parola motiva il sospetto di incostituzionalità, a cominciare dalla sopravvenuta irragionevolezza dell'art. 70 rispetto alla rete di principi paritari introdotti dallo ius superveniens.
Il "capo d'imputazione" concernente la sopravvenuta irragionevolezza (art. 3, comma 2, Cost.) di detta norma rispetto alle linee di fondo della riforma del 1975 che ha tradotto in regole giuridiche i principi enucleati dalla carta costituzionale in materia di famiglia, non appare decisivo alla Consulta la quale -pur non disconoscendo la logica paritaria che informa il nuovo diritto di famiglia e si manifesta in diverse norme vigenti (in particolar modo l'art. 143 c.c.)- ritiene che il conflitto tra norma fallimentare e norme familiari si risolva in un contrasto tra norme dello stesso rango, poiché le seconde, pur attuando i principi costituzionali, "non partecipano tuttavia della stessa forza di questi principi". La soluzione di tale contrasto sarà dunque rimessa all'attività interpretativa del giudice ordinario. Secondo la Consulta, tra le linee fondamentali della riforma del diritto di famiglia va ravvisata una logica paritaria nella posizione di entrambi i coniugi, principio estensibile agli aspetti del lavoro e delle sfere patrimoniali. Ciò in maggiore aderenza all'odierna realtà sociale delle famiglie, ed alla moderna concezione che valorizza l'attività di ciascuno dei coniugi, escludendo la subordinazione economica di uno all'altro. Questa linea tendenziale si manifesta in diverse norme vigenti, tra le quali il nuovo testo dell'art. 143 c.c., l'abolizione dell'antico istituto della dote, l'introduzione del regime legale della comunione dei beni, nonché il passaggio della separazione dei beni all'ambito dei regimi convenzionali, in cui i coniugi optano espressamente per un regime volontario che implica l'esclusione di interferenze fra i loro patrimoni, specie nell'ipotesi in cui questi siano frutto delle rispettive attività. Nonostante queste disarmonie, mentre la logica paritaria in ordine alla sfera patrimoniale dei coniugi ha contribuito a far ritenere -nel diritto vivente e quasi pacificamente in dottrina- non più operante il vecchio istituto della presunzione "muciana" per il sopravvenuto regime di comunione legale dei beni, non è altrettanto prevalente l'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale nel ravvisare analoga incompatibilità per l'ipotesi di regime di separazione dei beni. La Consulta, invero, sottolinea che la problematica in questione si risolve prevalentemente nel contrasto fra la norma impugnata (come interpretata dal giudice rimettente) ed altre norme dello stesso rango, le quali, pur configurandosi come corretta attuazione dei principi della Costituzione, non partecipano tuttavia della stessa forza di questi principi. Trattandosi quindi di aspetti che non attengono all'ambito costituzionale, e di incompatibilità tra norme di natura ordinaria, la loro soluzione -analogamente a quanto avvenuto per l'ipotesi di comunione legale- resta affidata all'attività ermeneutica di competenza dell'autorità giudiziaria. In secondo luogo, l'ordinanza rileva l'ulteriore irragionevolezza della situazione normativa con specifico riguardo alla disciplina di singoli istituti del nuovo diritto patrimoniale della famiglia. Infatti, nella particolare prospettiva di raffronto con la comunione legale, la Corte di Cassazione osserva che nel passaggio (previsto dall'art. 193 c.c.) dalla comunione al regime di separazione giudiziale dei beni in presenza di situazioni di disordine negli affari del consorte, chi vuole porre più al sicuro quella quota di proprietà degli acquisti che la comunione gli avrebbe comunque garantito (anche per inoperatività della presunzione "muciana"), incapperebbe proprio in questa presunzione ancora compatibile col regime di separazione dei beni. Se invece detta presunzione non fosse operante nel caso previsto dall'art. 193 (separazione giudiziale dei beni), sarebbe contraddittorio applicarla nel regime sostanzialmente identico della separazione convenzionale dei beni. Queste deduzioni relative a particolari censure del vigente sistema potrebbero essere controbilanciate da opposte esigenze di mantenimento della "muciana": quali l'apprestamento di un rimedio rapido al frequente abuso di sottrazione dei beni alla responsabilità patrimoniale del fallito; la maggiore facilità per il coniuge nel dare la prova contraria rispetto alle maggiori difficoltà per i creditori, obbligati ad esperire più complesse azioni di simulazione o di intestazione fiduciaria. In ogni caso la presa di posizione della Consulta sembra ricalcare quanto detto per l'argomento precedente, in quanto il problema in questione eccederebbe le competenze della stessa. La soluzione, cioè, andrebbe ricercata in provvedimenti legislativi atti a dissipare tutte le incongruenze e le antinomie rilevate. La Corte ritiene, inoltre, che le particolari censure del vigente sistema siano controbilanciate da opposte esigenze di mantenimento della "muciana", e che anche tale contrasto sia risolvibile soltanto in via interpretativa. Con un ulteriore ordine di rilievi, l'ordinanza di rimessione prospetta dubbi di legittimità costituzionale della stessa disposizione per diversi profili di ingiustificata disparità di trattamento che essa introdurrebbe (art. 3, comma 1, Cost.) in danno delle famiglie che abbiano scelto il regime di separazione dei beni, sia "all'esterno, rispetto a famiglie di fatto e ad altre forme di libera convivenza, sia all'interno stesso della famiglia legittima rispetto ai nuclei che abbiano optato per il regime di comunione legale". Dal raffronto di tali situazioni emergerebbe una disparità di trattamento anche tra creditori (nell'uno o nell'altro regime patrimoniale) e tra creditori dell'uno o dell'altro coniuge.
Riguardo alla disparità di trattamento in danno alle famiglie che abbiano optato per il regime di separazione del beni, la Corte osserva, in generale, che: "la predetta presunzione non sembra più in sintonia con i principi della riforma del 1975 (a loro volta ispirati ai principi costituzionali) considerando che è venuto meno il fondamento socio-economico di quella disparità fra i coniugi che la giustificava nei secoli passati". Anche il superamento del principio dell'indissolubilità giuridica del matrimonio, tenderebbe a indebolire la logica della presunzione "muciana" riguardo all'affidamento all'altro coniuge, privilegiando il ricorso all'intestazione dei beni ai figli o ad altri parenti. Quanto in particolare al regime di separazione dei beni, si sottolinea che i principi della predetta riforma hanno coinvolto sotto diversi aspetti anche tale convenzione, ove si consideri ad esempio che, pure in presenza di detta separazione, viene ora ad operare la presunzione di comunione dei beni di cui non è provata la proprietà esclusiva. Onde non sarebbe giustificata, in ordine alla operatività della "muciana", una disciplina nettamente differenziata tra i coniugi in regime di comunione e quelli con la convenzione di separazione dei beni. Senza contare, infine, che ogni disparità nel trattamento della famiglia legittima rispetto alle altre convivenze, oltre a menomare la posizione del coniuge, potrebbe contribuire a sviare la stessa scelta matrimoniale.
A quest'ultimo proposito, particolarmente delicato appare il discorso che si collega a quanto contenuto nell'ordinanza di rimessione, in merito alla violazione degli artt. 3, 29 e 31 della Costituzione che tutelano la famiglia, con l'implicito divieto di farla oggetto di misure di sfavore. La Corte di Cassazione infatti -oltre a citare la pronuncia della Corte costituzionale tedesca- menziona la sentenza n. 179 del 1976 con cui questa Corte dichiarò l'illegittimità costituzionale della disciplina fiscale sul cumulo dei redditi coniugali in quanto normativa "che non agevola la formazione della famiglia ed anzi dà vita per i nuclei familiari legittimi, e nei confronti delle unioni libere, delle famiglie di fatto e di altre convivenze, ad un trattamento deteriore". Invero si ritiene che non si andrebbe fuori tema se si citasse anche l'abolizione della presunzione "muciana" in Francia e quanto ebbe ad osservare questa Corte (sentenza n. 91 del 1973) dichiarando l'illegittimità del divieto di donazioni fra coniugi (art. 781 c.c.) per la considerazione che tale divieto rappresentava "una palese ineguaglianza giuridica di coloro che sono uniti in matrimonio legittimo non solo rispetto alla generalità dei cittadini, ma anche rispetto ad altri casi di unioni e di convivenza, quali il matrimonio putativo, il matrimonio successivamente annullato, la convivenza more uxorio di cui all'art. 269 c.c., il concubinato ed altre". La nostra Corte, invece, dopo aver escluso che l'art. 70 l. fall. ponga a carico dei coniugi oneri tali da pregiudicare i delicati compiti che la famiglia assolve anche nell'interesse sociale, sembra allontanare definitivamente la soluzione della questione dall'alveo costituzionale, auspicando l'intervento legislativo. Tuttavia, il giudice delle leggi ritiene necessario in proposito che tale intervento sia ispirato, in ogni caso, proprio ai "principi costituzionali sulla libertà dei coniugi e sulle esigenze di quel nucleo familiare che la Costituzione ha voluto chiaramente privilegiare". I giudici costituzionali, pur considerando sostanzialmente fondate le censure della Cassazione, hanno escluso che possano incorrere in una pronuncia di incostituzionalità norme contrastanti con la legge fondamentale dello Stato, solo a cagione dell'interpretazione che se ne dà. La Cassazione, nel contesto di una pronuncia di incostituzionalità se proprio non "accertata", neppure esclusa, ha inteso la posizione della Consulta quale sollecitazione a rivedere sotto nuova luce la "muciana". Si giunge così alla sentenza n. 13149/1995 che considera abrogata la presunzione "muciana" in qualunque regime patrimoniale, ribaltando completamente la precedente decisione. Probabilmente, come già avvenne per la sentenza del 1989, tale orientamento è destinato ad influenzare, forse definitivamente i futuri orientamenti giurisprudenziali, anche se -in assenza di un vero e proprio intervento legislativo- permane la perplessità sulla correttezza di una abrogazione "tacita" di un istituto così importante. In conclusione della presente disamina si può affermare che, indipendentemente dai citati precedenti e dagli orientamenti della disciplina di altri Stati europei, mentre può riconoscersi che l'art. 31 della nostra Costituzione non si limita ad impegnare la Repubblica ad interventi di promozione sociale a tutela della famiglia, ma implica altresì il divieto per il legislatore di introdurre discipline sfavorevoli alla famiglia stessa, va soggiunto che da ciò non discende tuttavia l'illegittimità costituzionale anche di quelle norme che -in un equilibrato bilanciamento di interessi contrapposti- pongano a carico dei coniugi oneri giustificati e non pregiudizievoli ai delicati compiti che la famiglia assolve anche nell'interesse sociale. Ciò rende auspicabile l'intervento legislativo, finalizzato ad un razionale riordino della materia, inteso ad armonizzare questo delicato aspetto della legge fallimentare ai principi ispiratori della riforma del 1975, eliminando gli inconvenienti lamentati, tenendo presenti gli altri ordinamenti europei e considerando in ogni caso i principi costituzionali sulla libertà dei coniugi e sulle esigenze di quel nucleo familiare che la Costituzione ha voluto chiaramente privilegiare.