La questione è tutt’altro che risibile!
Ci riferiamo alla riforma dei servizi pubblici locali, avviata da parte del Testo Unico Enti Locali (d.lgs. n. 267/2000) e continuata (a quanto pare, senza pretese di completezza) negli ultimi tempi.
Tanto per capire di che si dibatte (e sperando che, nel frattempo, non giunga qualche altro emendamento a cambiare le carte in tavola), proviamo a fare un pò d’ordine.
A. L’età delle scelte.
L’art. 113 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 267 (TUEL), nel testo originario, prevedeva che “i servizi pubblici locali sono gestiti nelle seguenti forme: a) in economia, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire una istituzione o una azienda; b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale; c) a mezzo di azienda speciale, anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale; d) a mezzo di istituzione, per l'esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale; e) a mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall'ente titolare del pubblico servizio, qualora sia opportuna in relazione alla natura o all'ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati; f) a mezzo di società per azioni senza il vincolo della proprietà pubblica maggioritaria a norma dell'articolo 116”.
La norma, che riproduceva piuttosto fedelmente il contenuto dell’art. 22 della legge 8 giugno 1990 n. 142, imponeva agli Enti Locali di scegliere una (o più) delle forme di gestione dei servizi pubblici locali, indicate nei punti da a) a f). Il fondamento su cui poggiava il sistema normativo così creato consisteva, quindi, nella possibilità, per le amministrazioni, di avvalersi di svariate alternative, per la gestione dei propri servizi pubblici locali.
In un tale contesto normativo, la “gara” (intesa come procedura ad evidenza pubblica) coesisteva accanto ad altri strumenti gestori e non poteva, dunque, dirsi la modalità principale di gestione dei servizi pubblici.
B. L’età della gara ad oltranza.
La prospettiva muta repentinamente (al di là della consecutio temporum che, in una materia come questa, non può non risultare stordita) con l’art. 35 della l. 28 dicembre 2001, n. 448 (c.d. legge finanziaria 2002), norma introdotta per modificare – nella sostanza, oltre che nella forma – il menzionato art. 113 TUEL. In effetti, il “nuovo” comma 1 dell’art. 113 TUEL, come modificato dall’art. 35 anzidetto, aveva introdotto una distinzione, assai, innovativa, nell’ambito dei servizi pubblici locali. Per la prima volta, infatti, si operava una distinzione tra servizi pubblici locali “di rilevanza industriale” e servizi “privi di rilevanza industriale” (dei quali si occupava l’art. 113 bis TUEL).
Peraltro, la riforma così operata era priva di un importante tassello: la definizione di “servizio di rilevanza industriale”. Non esistendo, infatti, una nozione normativamente stabilita di “servizi a rilevanza industriale”, si riteneva di dover fare riferimento al regolamento di esecuzione del menzionato art. 113 TUEL; allo stato (e forse per sempre), non emanato.
Nondimeno, tale situazione di stallo definitiorio non era generalizzata, in quanto il servizio idrico integrato era espressamente dichiarato (dal comma 5 dell’at. 113 TUEL) un servizio “di rilevanza industriale”.
Si introduceva, inoltre, la novità più significativa della riforma: per l’erogazione dei servizi pubblici locali (di rilevanza industriale, appunto) non erano più ammesse le forme di gestione diretta: il gestore, dunque, avrebbe dovuto essere individuato solo previo espletamento di procedure ad evidenza pubblica. La “gara” diveniva, quindi, lo strumento principe di concessione del servizio pubblico locale (applausi da Bruxelles).
Risale a questa era un interessante filone giurisprudenziale, formatosi sulla labile onda dell’entusiasmo, che – condivisibilmente, per carità! – aveva affermato che le società create per la gestione dei servizi pubblici locali, potevano ottenere l’attestato SOA e finanche partecipare a gare, oltre i confini delle mura domestiche; potevano, cioè, svolgere attività extra moenia. In particolare, in un primo momento, con Comunicato 28 settembre 2001, n. 14, l’Autorità di Vigilanza per i Lavori Pubblici aveva inizialmente escluso che le società costituite da Comuni e Province, per la gestione di servizi pubblici locali potessero ottenere l’attestato SOA, ma poi, con successiva deliberazione 20 novembre 2002, n. 325, l’Autorità aveva cambiato il proprio indirizzo.
Questa nuova linea interpretativa aveva trovato l’avallo della giurisprudenza (vedasi TAR Lazio, sez. III, sentenza 30 giugno 2003, n. 5717).
Inoltre, il TAR Lazio aveva coraggiosamente affermato che la legge 28 dicembre 2001, n. 448 (ed in particolare nell’art. 35 di detta legge) consentiva alle società miste di partecipare a gare indette da altre stazioni appaltanti non socie (TAR Lazio, sez. III, 30 giugno 2003, n. 5714, ad avviso della quale quale, il suddetto art. 35 della legge n. 448/2001 “sembra aver eliminato ogni residuo dubbio circa la generale capacità delle società miste di assumere servizi e lavori al di fuori del proprio territorio, tenuto conto che, certamente nel periodo transitorio indicato dal suo secondo comma, consente la partecipazione di dette società miste con partecipazione maggioritaria di capitale pubblico “ad attività imprenditoriali al di fuori del proprio territorio” e, quindi, all’esecuzione di lavori pubblici anche extraterritoriali”).
Ciò, peraltro, non senza dimenticare che l’impegno “extra moenia” delle società miste non avrebbe dovuto “comportare un’eccessiva distorsione di mezzi e risorse – senza apprezzabili ritorni di utilità – per la collettività locale di riferimento”. Sarebbe spettato alle SOA valutare la compatibilità dell’impegno che la società mista intendeva assumere in ambito extraterritoriale, con il vincolo che la legava alla collettività di riferimento (tra le altre, Cons. Stato, sez. V, 3 settembre 2001, n. 4586; TAR Lazio, sez. III, 26 marzo 2003, n. 2632).
Il quadro era chiuso: tutto aveva inizio e tutto aveva fine nell’ideale della concorrenza. Nulla di strano, d’altronde, in quanto il principio per cui le società partecipate da amministrazioni aggiudicatrici potevano prendere parte a procedure ad evidenza pubblica era già da tempo patrimonio della giurisprudenza comunitaria (vedasi, in proposito, Corte CE, sez. VI, 7 dicembre 2000, causa C-94/99; ARGE c/ Bundeministerium fur Land und Forstwirtshaft).
C. L’età di mezzo (o dell’affidamento in house providing).
A distanza di circa due anni, era, poi, giunto un altro importante tassello nella questione dei servizi pubblici locali: il decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, che aveva, ancora una volta, modificato l’art. 113 TUEL. Con tale provvedimento, la “gara” non veniva più ad occupare il primo posto nelle preferenze del legislatore, in quanto, nella ridefinizione dei contenuti dell’art. 113 TUEL, era affiancata – se non addirittura scavalcata – dall’affidamento dei servizi pubblici secondo il modello dell’in house providing.
Al di là della terminologia anglosassone, si dirà che, in base a tale schema gestorio, gli enti locali potevano (ed ancor di più, ora, possono) affidare la gestione (delle reti di distribuzione e) dei servizi locali a società, appositamente istituite, sulle quali esercitavano un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che realizzavano la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici controllanti.
Questo modello gestorio trovava la propria origine nella giurisprudenza comunitaria. In particolare, la Corte CE, con la famosa sentenza “Teckal” (18 novembre 1999, in causa C-107/98) aveva escluso l’applicabilità delle norme sull’individuazione concorrenziale del concessionario qualora “l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”.
Dell’applicabilità del modello Teckal alle società miste, però, si era dubitato. In particolare, la dottrina di riferimento aveva sostenuto che “ben difficilmente potrebbero riscontrarsi tali presupposti [dell’in house providing] nei confronti di società per azioni che gestiscano servizi pubblici locali […] Come ricordato anche dalla circolare del Ministro dell’Ambiente 17.10.2001 n. GAB/2001/11559/B01 riguardante il servizio idrico integrato “l’eventuale controllo può avvenire solo secondo modalità previste dal diritto societario e non certo secondo rapporti gerarchici o strumentali di carattere pubblicistico”. D’altra parte, la società di capitali si distingue dall’azienda speciale e dal consorzio (si tenga presente che la sentenza Teckal ha riguardato un’azienda consorziale fra Comuni) proprio per l’estraneità rispetto all’apparato amministrativo dell’ente locale, di cui non è soggetto od organismo strumentale (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 3.9.2001 n. 4586)” (così, G. Pittalis, Regolazione pro-concorrenziale dei servizi pubblici locali: un principio vincolante per Stato e Regioni, in www.giust.it). L’affidamento “in house”, anzi, era stato dichiarato come un’eccezione alla regola della gara anche dal Ministro per le Politiche Comunitarie (con circolari 1 marzo 2002 n. 3944, in G.U.R.I. n. 102/02 – Serie generale, e 19 ottobre 2001 n. 12727, in G.U.R.I. n. 264/01 – Serie generale).
Accanto a tale (discussa e discutibile) tipologia di gestione, però, coesisteva (ma era già moribonda) la procedura dell’evidenza pubblica (la “gara”, per l’appunto). Da notare, poi, come la dizione “servizi pubblici di rilevanza industriale” veniva sostituita da quella (forse più comprensibile) di “servizi pubblici di rilevanza economica” (dunque, non necessariamente organizzati su scala industriale).
D. L’età della restaurazione.
Neanche il tempo di studiare la “due volte nuova” normativa (eravamo ancora con il fiato sospeso, per vedere se il decreto legge fosse convertito), che, ad un mese di distanza, è giunto un nuovo maxi-emendamento a dettare legge (è proprio il caso di dirlo). Il 30 ottobre 2003, il Senato ha approvato il disegno di legge “S.2518”, di conversione, con modifiche, del menzionato decreto legge 30 settembre 2003, n. 269.
Ecco alcune tra le ultime novità.
I servizi pubblici locali sono distinti in aventi rilevanza “economica” e “non aventi rilevanza economica” (scompare, quindi, il riferimento alla “rilevanza industriale”). In questo provvedimento, le norme in materia di gestione e di affidamento dei servizi di rilevanza economica sono inderogabili, integrano le normative di settore e, così si dice, sono dirette alla tutela della concorrenza.
L’erogazione dei servizi “economici” può essere affidata a società di capitali, individuate mediante ricorso a procedure ad evidenza pubblica; a società a capitale miste pubblico/private, nelle quali il socio privato sia stato scelto con gara; a società a capitale interamente pubblico, sulle quali l’ente locale eserciti un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che realizzino la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che le controllano (è confermato, dunque, l’affidamento “in house”).
Le concessioni affidate senza procedure ad evidenza pubblica scadono, ora, il 31 dicembre 2006, salvo che: le normative di settore non stabiliscano un congruo periodo di transizione; le concessioni in essere siano state rilasciate con procedure ad evidenza pubblica; le concessioni sono state affidate a società a capitale misto pubblico privato, nelle quali il socio privato sia stato scelto con gara; le concessioni siano state affidate (“in house”) a società a capitale interamente pubblico; intervenga un accordo con la Commissione Europea.
E. Riflessioni.
Per chi, come chi scrive, segue le vicende dei servizi pubblici locali, quanto meno, dall’età delle scelte, gli ultimi trenta giorni sono risultati spiazzanti. Si è passati dall’interessante prospettiva di massima liberalizzazione del mercato dei servizi pubblici locali ad un’inspiegabile – e quanto mai inaspettata – chiusura del mercato, a tutto vantaggio della “mano pubblica”.
In una tale ottica, assume toni quasi grotteschi l’enunciazione per cui la riforma dei servizi locali è diretta alla tutela della concorrenza. Mai enunciato normativo fu più di questo destinato a rimanere lettera morta. In effetti, non si vede per quale motivo i Comuni e le altre amministrazioni locali dovrebbero essere interessati a consentire agli operatori privati di inserirsi in mercato che, da stime credibili (Il Sole 24 Ore del 31 ottobre 2003), si aggira intorno ai 26 miliardi di euro. È più che mai probabile, anzi, che un canale tanto redditizio induca le amministrazioni a chiudersi a riccio di fronte alla prospettiva di “spartire” con i privati i proventi derivanti dalla gestione dei propri servizi pubblici di rilevanza economica. Cosa rimane, allora, al privato? I servizi pubblici privi del carattere dell’economicità. Con buona pace della concorrenza. Almeno fin tanto che qualche coraggioso capitano d’impresa non decida di impugnare il prossimo affidamento diretto (o “in house”, se più vi piace) di servizi pubblici locali e qualche parimenti coraggioso Collega non abbia l’ardire di adire la Corte di Bruxelles, per vendicare tale e tanto oltraggio alle regole comunitarie.