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Crookes v. Newton, 2011 SCC 47, [2011] 3 S.C.R. 269

Scritto da Lorenzo Dalla Corte

Il 19 ottobre 2011 la Corte Suprema canadese ha finalmente espresso la propria decisione (Crookes v.Newton, 2011 SCC 47, [2011] 3 S.C.R. 269), negando la responsabilità di J. Newton  e statuendo che la condivisione di ipertesti non costituisce – in sé considerata - pubblicazione: solo quando l' hyperlinker presenta il collegamento ipertestuale in modo da riproporre o sostenere il contenuto diffamatorio si può parlare di diffamazione.
La decisione della Corte, però, è stata ben lungi dall'essere unanime.

Justice Abella (reasons for judgement), d' accordo con i giudici Binnie, LeBel, Charron, Rothstein e Cromwell, sostiene sostanzialmente la neutralità del mero ipertesto in sé considerato ed il fatto che esso non costituisca pubblicazione.
Prendendo le mosse dalla questione iniziale[1], ossia la qualificazione giuridica del concetto di ipertesto, il giudice sostiene che – benché il Libel and Slander Act, R.S.B.C. 1996, c. 263 imponga di considerare determinate fattispecie alla stregua di pubblicazioni – non esista tale presunzione nei confronti dei meri ipertesti pubblicati su Internet. Abella rigetta dunque in maniera piuttosto radicale[2] la tesi prospettata da Crookes, secondo la quale la semplice condivisione del link in una pagina Internet porterebbe a presumere automaticamente che il contenuto di detto ipertesto sia stato visionato da terzi, integrando conseguentemente un imprescindibile requisito della nozione di pubblicazione.

Il giudice prosegue poi esaminando il tradizionale concetto di publication rapportato alla condivisione ipertestuale anche alla luce della giurisprudenza britannica e di quella statunitense, le quali – in diverse pronunce – tengono distinte le due nozioni, manifestando dunque un tendenziale approccio anti-formalistico alla tradizionale publication rule ed accentuando invece l' importanza della funzione espressiva e comunicativa che dovrebbe caratterizzare ogni tipo di pubblicazione.
Egli continua quindi sottolineando l' importanza della mancanza di controllo da parte del soggetto che condivide in relazione al contenuto condiviso[3], accostando dunque il concetto di ipertesto a quello di mero riferimento ad un materiale secondario.
Risulta infatti evidente, considerando l' hyperlink come mera nota a piè di pagina (meccanismo logico utilizzato dalla corte d'appello nella pronuncia del precedente grado di giudizio), come il soggetto autore del materiale condiviso possa modificare detto materiale in maniera totalmente svincolata da ogni tipo di controllo da parte del soggetto condividente.

Dopo tale analisi, Abella ricorda come in ogni caso di diffamazione sia compito della Corte bilanciare il diritto del singolo alla conservazione della propria reputazione con il diritto della collettività alla libertà di espressione intesa lato sensu. Nel caso in esame, oltretutto, l' incidenza di tali valori è ingigantita dal medium utilizzato: da un lato, infatti, la facilità di pubblicazione e il potenziale anonimato garantiti da Internet rendono maggiormente vulnerabile la reputazione di ognuno, mentre dall'altro lato un'eccessiva severità in materia si tradurrebbe in un vulnus di notevole entità nei confronti del più grande veicolo di trasmissione di informazioni della nostra epoca[4]. Il corretto bilanciamento, secondo il giudice, non può comportare l' automatica comparazione ipertesto-pubblicazione, ma deve necessariamente prendere le mosse da un'analisi approfondita – oltre che del materiale condiviso – anche del “modo” in cui l' ipertesto è presentato.
I giudici McLachlin e Fish aggiungono infatti, nelle loro concurring reasons, che la fattispecie cambia sensibilmente – fino ad integrare gli estremi della pubblicazione – quando accanto al link sono presenti riferimenti “in adoption or endorsement” al materiale diffamatorio. Un mero ipertesto, quindi, è considerato diversamente da un link che esprima contemporaneamente un giudizio di valore in relazione al materiale collegato.
 
Justice Deschamps (dissenting opinion), invece, pur essendo d'accordo nel risultato, non lo è nella logica seguita dai colleghi: egli delinea, infatti, una sorta di meccanismo atto a verificare in base ad una duplice condizione (l' esistenza di un atto coscientemente e volontariamente diretto a rendere edotti terzi della presenza del materiale diffamatorio ed il fatto che tali terzi abbiano visionato detto materiale) la sussistenza della diffamazione tramite hyperlink, individuando in almeno uno degli ipertesti condivisi da Newton una qualche forma di endorsement, con conseguente perdita del carattere di neutralità. La responsabilità viene però esclusa, secondo Deschamps, dal fatto che manchi evidenza della ricezione del materiale diffamatorio da parte di una terza persona. Sarebbe infatti stato necessario, secondo le condizioni sopra esposte, che Newton avesse svolto un ruolo maggiormente incisivo nella diffusione del materiale diffamatorio[5] [6] e che al contempo Crookes avesse provato – direttamente od indirettamente – la lettura di detto materiale da parte di un terzo[7].

L' opinione dissenziente del giudice Deschamps non è l' unico profilo critico della sentenza: essa infatti evita di prendere in considerazione determinati aspetti tecnici degli hyperlink, come ad esempio la distinzione tra “embedded”, “authomatic”, “shallow” e “deeplinks; non tutti i tipi di connessioni ipertestuali sono uguali, ed a tale diversità potrebbe dover corrispondere una differente regolamentazione giuridica.
Justice Abella motiva[8] tale scelta sostenendo l' irrilevanza della distinzione ai fini della pronuncia in esame, soprattutto alla luce della rapidità con la quale le moderne tecnologie (ipertesti compresi) mutano.

Come evidenziato da Robert Kasting, counsel di Wayne Crookes, la mancata unanimità nella decisione della corte, la varietà delle tipologie di materiale condivisibile (quid iuris, ad esempio, se il materiale condiviso fosse tutelato dal diritto d' autore?) e la costante ed inesorabile evoluzione delle stesse modalità di condivisione riducono parzialmente l' importanza del precedente, e non sembra improbabile che in un futuro prossimo la stessa Corte, chiamata a risolvere una controversia simile, opti per un diverso bilanciamento tra i principi della libertà di espressione e di stampa ed il valore della reputazione del singolo.

 
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[1] “whether hyperlinks that connect to allegedly defamatory material can be said to “publish” that material”

[2] For the reasons that follow, I would not only reject such a presumption, I would conclude that a hyperlink, by itself, should never be seen as “publication” of the content to which it refers”

[3] “Although the primary author controls whether there is a hyperlink and what article that word or phrase is linked to, inserting a hyperlink gives the primary author no control over the content in the secondary article to which he or she has linked”

[4] “The Internet cannot, in short, provide access to information without hyperlinks. Limiting their usefulness by subjecting them to the traditional publication rule would have the effect of seriously restricting the flow of information and, as a result, freedom of expression. The potential “chill” in how the Internet functions could be devastating, since primary article authors would unlikely want to risk liability for linking to another article over whose changeable content they have no control. Given the core significance of the role of hyperlinking to the Internet, we risk impairing its whole functioning.”

[5] “It should be plain that not every act that makes the defamatory information available to a third party in a comprehensible form might ultimately constitute publication. The plaintiff must show that the act is deliberate. This requires showing that the defendant played more than a passive instrumental role in making the information available.”

[6] “only where the plaintiff can establish on a balance of probabilities that the defendant performed a deliberate act that made defamatory information readily available to a third party in a comprehensible form will the requirements of the first component of publication be satisfied.”

[7] “the plaintiff must also satisfy the requirements of the second component of publication on a balance of probabilities, namely, that the “defamatory matter [was] brought by the defendant or his agent to the knowledge and understanding of some person other than the plaintiff” (McNichol, at p. 704).”

[8] “I am aware that distinctions can be drawn between hyperlinks, such as the deep and shallow hyperlinks at issue in this case, and links that automatically display other content. The reality of the Internet means that we are dealing with the inherent and inexorable fluidity of evolving technologies. As a result, it strikes me as unwise in these reasons to attempt to anticipate, let alone comprehensively address, the legal implications of the varieties of links that are or may become available. Embedded or automatic links, for example, may well prove to be of consequence in future cases, but these differences were not argued in this case or addressed in the courts below, and therefore need not be addressed here.”