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La garanzia costituzionale della terzietà del giudice civile

Scritto da Giuseppe Vignera

          SOMMARIO:  1. Il valore dell’imparzialità del giudice nella giurisprudenza costituzionale (in generale). – 2. La “mortificazione” della garanzia della terzietà del giudice civile nella recente giurisprudenza costituzionale. Le questioni relative al giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causam. – 3. (Segue) La questione riguardante il giudice nuovamente investito della medesima controversia ai sensi dell’art. 354 c.p.c. – 4. (Segue) La questione riguardante il giudice delegato chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso provvedimenti decisori da lui stesso emessi. – 5. (Segue) La questione riguardante il giudice delegato chiamato a svolgere le funzioni di giudice istruttore nella causa di opposizione a stato passivo. – 6. (Segue) Le questioni relative al giudice che abbia provveduto sull’istanza ex art. 186 quater c.p.c. ed al giudice delegato che abbia autorizzato il curatore a promuovere l’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. – 7. (Segue) La questione  riguardante il giudice dell’opposizione agli atti esecutivi avente ad oggetto un provvedimento dallo stesso emesso quale giudice dell’esecuzione. – 8. (Segue) Il falso  revirement  di Corte cost. 15 ottobre 1999 n. 387. – 9. Conclusioni.

 

 

1. – Il valore dell’imparzialità del giudice nella giurisprudenza costituzionale (in generale).

 

      Assiologicamente collegata ad altri connotati costituzionalmente propri del giudice (inteso ora quale apparato o ordine giurisdizionale, ora quale organo o ufficio giudiziario, ora quale magistrato-persona fisica),  l’imparzialità (in senso lato)  individua quel particolare profilo del giudice-persona fisica attinente ai suoi rapporti (non già con altri organi pubblici, ma) con il singolo processo, nel quale è chiamato ad esercitare le sue funzioni; e sta ad indicare che la posizione del magistrato deve essere super partes o, meglio, equidistante e “spersonalizzata al massimo” rispetto ai soggetti ed agli oggetti del processo stesso.

      Più esattamente, l’imparzialità del giudice può essere definita come la sua indifferenza personale all’esito del processo affidatogli e si risolve nell’insussistenza di vincoli (soggettivi, oggettivi e psicologici) suscettibili di condizionare il contenuto della sua decisione.

      Già prima dell’entrata in vigore del “nuovo” art. 111, comma 2, Cost., la Corte costituzionale aveva in più occasioni proclamato che l’imparzialità deve considerarsi requisito indefettibile ed irrinunciabile di ogni giudice, sia esso ordinario che speciale, pur non additando in termini univoci il relativo fondamento normativo.

      Ed invero:

a)       talora codesto fondamento è stato ravvisato nel complesso delle norme costituzionali relative alla magistratura ed al diritto di difesa;

b)       altre volte l’imparzialità [“in carenza della quale le regole e le garanzie processuali si svuoterebbero di significato”] è stata considerata connaturata all’essenza stessa della giurisdizione;

c)       in alcune sentenze, poi, sta scritto che il principio dell’imparzialità trova il suo primo fondamento nel canone dell’eguaglianza ex art. 3 Cost.;

d)       non sono, ancora, mancate pronunce richiamanti specifiche disposizioni costituzionali in tema di giurisdizione, quali l’art. 108, comma 2, Cost. (che letteralmente riguarda soltanto l’indipendenza dei giudici speciali) e l’art. 25, comma 1, Cost.;

e)       nella maggior parte dei casi, infine, è stato fatto riferimento al principio dell’indipendenza, che sarebbe “comprensivo anche della terzietà o imparzialità, intesa come assoluta estraneità alla res judicanda”.

 

      L’attività di “concretizzazione” svolta dalla giurisprudenza costituzionale rispetto al valore costituzionale de quo si è per molti anni risolta in una serie di proposizioni negative, dalle quali cioè è possibile enucleare soltanto una serie di regole e/o principi considerati ad esso (valore) estranei.

      In questa prospettiva è stato, in particolare, affermato che:

a)       l’esclusione del principio della domanda (ne procedat iudex ex officio) non importa lesione della garanzia dell’imparzialità del giudice;

b)       l’imparzialità non viene meno quando il giudice decide in un procedimento, nel quale ha svolto funzioni amministrative perché – si è detto – la sua appartenenza all’ordine giudiziario e le garanzie costituzionali, che ne assistono lo stato giuridico, lo pongono in grado di operare sempre con assoluta obiettività;

c)       non integra difetto di imparzialità la titolarità in capo al giudice di un mero “interesse diffuso” eventualmente implicato nel processo.

 

      Intorno alla metà degli anni ‘90, tuttavia, la Consulta ha finalmente esaminato la garanzia de qua in una prospettiva positiva, non limitandosi a dire soltanto che l’imparzialità è un irrinunciabile requisito costituzionale del giudice, ma cercando altresì di precisarne il contenuto concreto.

      Con la “storica” decisione del 20 maggio 1996 n. 155, in particolare, la Corte costituzionale ha chiaramente e definitivamente affermato che l’imparzialità “richiede che la funzione del giudicare sia assegnata a un soggetto <<terzo>>, non solo scevro di interessi propri che possano far velo alla rigorosa applicazione del diritto, ma anche sgombro da convinzioni precostituite in ordine alla materia del decidere, formatesi in diverse fasi del giudizio in occasioni di funzioni decisorie ch’egli sia stato chiamato a svolgere in precedenza”.

      Sulla scorta di questo chiarissimo insegnamento è possibile oggi sostenere che l’imparzialità del magistrato postula:

A)      l’insussistenza di un suo interesse personale nella causa e la sua estraneità nei confronti delle parti del procedimento (imparzialità in senso stretto);

B)       l’inesistenza di precedenti sue decisioni assunte sulla medesima res iudicanda in altri gradi o fasi del processo (terzietà in senso stretto).

 

      Ed infatti:

a)       il giudice interessato ad un certo esito del processo potrebbe essere indotto “ad usare i propri poteri in modo da piegare la causa all’esito che collimi, anziché contrastare, con il proprio interesse”;

b)       il giudice legato ad una parte più facilmente può cedere alla tentazione di usare i poteri conferitigli dalla legge in modo tale da arrecare alla parte stessa “danno o vantaggio maggiore o minore di quello conseguenziale al sereno esercizio di quei poteri”;

c)       la precedente valutazione compiuta dal giudice sulla stessa materia innesca meccanismi psicologici suscettibili di condizionare il contenuto della sua decisione, in considerazione di quel “vincolo che all’eventuale ripensamento critico può venire o dalla naturale riluttanza di ciascuno a cambiar le proprie idee e riconoscere i propri torti o, addirittura, dalla prospettiva di conseguenze negative (responsabilità civili, sanzioni penali)”.

 

      A proposito di quest’ultima affermazione,  mette conto sottolineare come la stessa Corte costituzionale siasi preoccupata pure di delimitarne l’ambito operativo, sottoponendo la sua portata generale alla seguente “quadruplice precisazione”.

      “Innanzitutto, il presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda ”.

      “In secondo luogo ..., rilevante ai fini della incompatibilità non è la semplice <<conoscenza>> di atti anteriormente compiuti, riguardanti il processo: l’incompatibilità sorge quando il giudice sia stato chiamato a compiere una <<valutazione>> di essi, al fine di una decisione”.

      “In terzo luogo, non tutte le valutazioni anzidette danno luogo a un pregiudizio rilevante, ma solo quelle <<non formali, di contenuto>>, cosicché le condizioni dell’incompatibilità si determinano quando il giudice si sia pronunciato su aspetti che riguardano il merito” della causa, “ma non anche quando abbia preso determinazioni soltanto in ordine allo svolgimento del processo, sia pure in seguito a una valutazione delle risultanze processuali”.

      “Infine, le valutazioni in questione, rilevanti ai fini dell’insorgere dell’incompatibilità, appartengono a fasi diverse del processo, essendo più che ragionevole che, in ciascuna di esse, sia preservata l’esigenza di continuità e di globalità ... Conseguentemente, il giudice chiamato al giudizio di merito non incorre in incompatibilità tutte le volte in cui compie valutazioni preliminari, anche di merito, destinate a sfociare in quella conclusiva ... In caso contrario si determinerebbe una <<assurda frammentazione>> del procedimento – inteso quale <<ordinata sequenza di atti, ciascuno dei quali legittima, prepara e condiziona quello successivo>> –, con l’aberrante conseguenza di dover disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi, quanti sono gli atti da compiere”.

      Sebbene enunciati con diretto riferimento all’art. 34, comma 2, c.p.p., i superiori principi presentano indubbie potenzialità espansive.

      Poiché, infatti, sono stati elaborati in considerazione (non già del valore della libertà personale, specificamente interessante la giurisdizione penale, ma) della garanzia dell’imparzialità del giudice (la quale secondo la stessa sentenza “connota nell’essenziale tanto la funzione giurisdizionale quanto la posizione del giudice”, senza distinzioni), tali principi conseguentemente e coerentemente dovrebbero essere tenuti presenti anche nell’ambito della giurisdizione civile: di guisa che alla loro stregua sembrava inevitabile  che sentenze “additive” della Corte costituzionale dilatassero l’ambito della quarta ipotesi dell’art. 51 n. 4 c.p.c. (limitata al giudice che abbia già conosciuto della causa come magistrato in altro grado del processo).

      

 

2. – La “mortificazione” della garanzia della terzietà del giudice civile nella recente giurisprudenza costituzionale. Le questioni relative al giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causam.

 

      Tuttavia, mentre nel campo della giustizia penale i superiori principi hanno provocato una proliferazione delle ipotesi di incompatibilità ex art. 34, comma 2, c.p.p. a seguito di una pletora di pronunce additive della Corte costituzionale (proliferazione che ha rischiato di provocare un vero e proprio processo metastatico nel tessuto dell’ordinamento giudiziario),  gli stessi principi sono stati di fatto  totalmente disattesi (o quasi) dalla Consulta nell’ambito della giustizia civile, essendo state dichiarate infondate tutte le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 51 n. 4 c.p.c. prospettate in applicazione di quei principi e, più esattamente, con riferimento:

a)       al giudice della causa di merito, che abbia concesso  un provvedimento d’urgenza ante causam;

b)       al giudice nuovamente investito della medesima controversia ai sensi dell’art. 354 c.p.c.  in seguito alla dichiarazione di nullità della sentenza, da parte del giudice d’appello, per pretermissione di litisconsorti necessari;

c)       al giudice delegato chiamato a svolgere le funzioni di giudice istruttore nella causa di opposizione a stato passivo;

d)       al giudice delegato chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso provvedimenti decisori da lui stesso emessi;

e)       al giudice investito della pronuncia della sentenza, che abbia con ordinanza  già provveduto sull’istanza ex art. 186 quater c.p.c.;

f)       al giudice del c.d. merito possessorio, che abbia trattato la precedente fase sommaria;

g)       al giudice facente parte del collegio chiamato a decidere sull’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., il quale come giudice delegato abbia autorizzato il curatore a promuovere l’azione stessa e abbia nel contempo autorizzato, o comunque disposto, in vista di detta causa, le opportune misure cautelari;

h)       al giudice dell’opposizione agli atti esecutivi avente ad oggetto un provvedimento emesso dallo stesso magistrato quale giudice dell’esecuzione.

 

      Se si leggono attentamente le motivazioni poste a fondamento delle relative decisioni della Corte costituzionale, si comprende chiaramente come esse siano state ispirate esclusivamente dall’intento di comprimere al massimo l’area delle incompatibilità del giudice civile.

      Invero, le questioni relative al giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causam, al giudice che abbia trattato la fase interdittale del procedimento possessorio ed al giudice che abbia disposto le misure cautelari ex art. 146, comma 3, l. fall. sono state disattese perché ad avviso della Corte costituzionale:

a)       mentre nel processo penale la pronuncia di fase cautelare cade praticamente sulla stessa res iudicanda in quanto impostata sull’esistenza di gravi indizi di colpevolezza, che il giudice deve accertare ed esporre con adeguata motivazione, nel processo civile non vi è analogo rischio di condizionamento e di duplicazione di giudizi, posto che il giudizio sul fumus boni iuris esclude valutazioni contenutistiche e muove da un apprezzamento di semplice verosimiglianza, concretizzantesi in una valutazione probabilistica circa le buone ragioni dell’attore;

b)       il materiale raccolto ante causam non è di per sé destinato ad assumere una sua evidenza nel successivo giudizio, rilevando semmai come mero argomento di prova.

 

      Il superiore ragionamento appare intrinsecamente fragile!

      Avverso l’argomentazione sub a), infatti, è facile obiettare che:

A)      va rigettata la tesi postulante il carattere meramente ipotetico [nel senso che “prescinde dalla acquisizione di risultanze probatorie per appagarsi di una valutazione della verosimiglianza delle allegazioni fondata su un mero calcolo di probabilità”] dell’accertamento relativo al fumus boni iuris compiuto in sede cautelare;

B)       sulla scorta del “nuovo” art. 669 sexies c.p.c. (la dovè si fa riferimento agli atti di istruzione ed all’assunzione di informazioni ad opera del giudice designato), invece, deve ritenersi che de iure condito presupposto per la concessione del provvedimento cautelare sia  la cognizione sommaria (non definitiva, cioè, ma “allo stato degli atti”) del diritto azionato, la cui esistenza deve apparire probabile alla stregua (non delle sole affermazioni della parte istante, ma) degli elementi probatori offerti dalle parti o acquisiti d’ufficio;

C)      così intesa, la valutazione relativa al fumus boni iuris nel procedimento cautelare civile appare qualitativamente corrispondente (o comunque  analoga) a quella riguardante i “gravi indizi di colpevolezza” compiuta nell’ambito del procedimento applicativo di una misura cautelare personale (art. 273, comma 1, c.p.p.).

 

      L’inconsistenza dell’argomento sub b), a sua volta, risulta manifesta se si considera che “solo le prove costituende irritualmente assunte possono  presentare problemi del tipo di quelli sottolineati dalla Corte costituzionale, mentre le prove precostituite o le prove costituende regolarmente assunte varrebbero invece proprio come argomento a contrario rispetto a quello sentenziato dalla Consulta”: e ciò, a prescindere dalla circostanza che  anche nel processo penale gli atti del fascicolo delle indagini preliminari (compresi quelli posti a fondamento dell’ordinanza cautelare emessa dal g.i.p.) sono di regola inutilizzabili nel giudizio dibattimentale!

 

     

3. – (Segue) La questione riguardante il giudice nuovamente investito della medesima controversia ai sensi dell’art. 354 c.p.c.

 

      La questione riguardante il giudice nuovamente investito della medesima controversia ai sensi dell’art. 354 c.p.c. in seguito alla dichiarazione di nullità della sentenza, da parte del giudice d’appello, per pretermissione di litisconsorti necessari, a sua volta, è stata dichiarata infondata perché in tale situazione (c.d. rinvio improprio) “la restituzione della causa nella situazione in cui si trovava al momento del verificarsi dell’accertata nullità fa sì che la vicenda processuale sia destinata, di norma, a svilupparsi in una trattazione del tutto distinta rispetto a quella precedentemente tenuta in violazione del diritto di partecipazione di una o più parti, il cui apporto può fare assumere al processo una diversa configurazione anche sotto il profilo oggettivo, oltre che imprimere al medesimo un diverso impulso sotto il profilo istruttorio”.

      Ma se tutto ciò fosse vero, perché mai allora la stessa Consulta  aveva poco tempo prima ritenuto che l’art. 34, comma 1, c.p.p., per sottrarsi ad una censura di incostituzionalità, debba interpretarsi nel senso che l’incompatibilità ivi divisata va riferita ad ogni caso di giudizio di rinvio a seguito di annullamento della sentenza, compreso quello  in cui la trasmissione degli atti al giudice di primo grado sia stata fatta dal giudice di appello ex art. 604, comma 4, c.p.p.?

      L’ultima parte di quest’ultima disposizione infatti, inerisce (anche) ad una situazione processuale (rappresentata dalla nullità della sentenza di primo grado conseguente all’inosservanza delle disposizioni concernenti l’intervento dell’imputato e delle altre parti private, nonché la citazione in giudizio della persona offesa dal reato e del querelante) assolutamente speculare all’ipotesi ex art. 354 c.p.c. sopra considerata.

 

 

 4. – (Segue) La questione riguardante il giudice delegato chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso provvedimenti decisori da lui stesso emessi.

 

      Quanto alla quaestio legitimitatis  relativa al giudice delegato chiamato a comporre il collegio in sede di reclamo avverso provvedimenti decisori da lui stesso emessi, la stessa è stata “liquidata” dalla Corte costituzionale sul presupposto che “la qualificazione del reclamo – risultante dall’art. 739 c.p.c. – come grado ulteriore del giudizio, non è  estensibile al reclamo fallimentare, il quale rimane infatti nell’ambito della stessa fase processuale, essendo da considerarsi come un  momento dell’iter della procedura concorsuale, le cui peculiarità impongono speciali esigenze di continuità. Di queste esigenze …il giudice delegato è sostanzialmente il garante; e in funzione di tale ruolo viene previsto dal denunciato art. 25 n. 1 il permanente raccordo che lo lega al collegio attraverso l’obbligo di riferire ad esso su ogni affare per il quale sia richiesto un provvedimento del collegio medesimo”.

      Così scrivendo, tuttavia, i Giudici costituzionali:

a)       hanno trascurato di considerare che “i summenzionati principi di necessaria concentrazione processuale negli organi del fallimento di ogni questione che possa insorgere hanno piena validità solo per la fase amministrativa, nella quale il giudice delegato agisce in stretta correlazione con il collegio per la necessaria integrazione dei poteri del curatore ed è chiamato a riferire su ogni affare sul quale è richiesto il provvedimento del tribunale, ma non possono essere estesi al reclamo che abbia per oggetto diritti soggettivi”:  quest’ultimo, infatti “si pone nei confronti dei provvedimenti decisori del giudice delegato, non già su un piano di coerente sviluppo e completamento, ma al contrario di discontinuità e di <<reazione processuale>>, costituendone vera e propria impugnazione”;

b)       hanno disatteso la ricostruzione da loro stessi operata con la sentenza 8 maggio 1996 n. 148, dove sta scritto che avverso i provvedimenti cautelari emessi dal giudice delegato ex art. 146, comma 3, l. fall. “sono ammessi i normali mezzi di impugnazione, a cominciare dall’immediato reclamo al collegio”: ricostruzione (della natura impugnatoria del reclamo rispetto al provvedimento del giudice delegato) che a fortiori avrebbe dovuto essere recepita dalla Consulta rispetto al rimedio ex art. 26 l. fall. esperito contro i decreti decisori del giudice delegato.

 

 

5. – (Segue) La questione riguardante il giudice delegato chiamato a svolgere le funzioni di giudice istruttore nella causa di opposizione a stato passivo.

 

      In ordine alla questione concernente il giudice delegato chiamato a svolgere le funzioni di giudice istruttore nella causa di opposizione a stato passivo, per affermarne l’infondatezza la Corte costituzionale si sarebbe potuta limitare – a nostro avviso – ad evidenziare la natura esclusivamente documentale [e, quindi, meramente parziale (più che sommaria)] della cognizione del giudice delegato: con conseguente impossibilità di configurare nella fattispecie una duplicazione di giudizi della medesima natura presso lo stesso giudice e, quindi,  “il presupposto di ogni incompatibilità endoprocessuale” costituito dalla “preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda”.

      Anziché percorrere questo iter assai lineare, invece, la Consulta:

a)       in una  prima occasione si è limitata a rifarsi ai principi espressi (con riferimento al giudice delle misure cautelari ante causam) dalla surricordata sentenza n. 326 del 1997, evidenziando come “l’attività relativa alla formazione dello stato passivo si caratterizzi per una verifica dei crediti effettuata con cognizione sommaria, laddove quella in sede di opposizione è finalizzata a raccogliere elementi utili alla decisione del collegio sulla base dei motivi dell’opposizione stessa, suscettibili d’introdurre nuovo materiale probatorio”;

b)       in un secondo momento, oltre a  riproporre la superiore argomentazione, si è impegnata a dimostrare come non fosse possibile richiamare in subiecta materia i “sopravvenuti” principi enunciati  da Corte cost. 15 ottobre 1999 n. 387 – sui  quali torneremo ben presto – e, in particolare, il requisito dell’esistenza delle “stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase”, atteso che,  “alla stregua del diritto vivente, l’efficacia preclusiva dello stato passivo non opposto è di natura meramente endoprocessuale e solo la sentenza resa sulla opposizione è suscettibile di assumere effetti di giudicato”.

 

      A quest’ultimo proposito, peraltro, mette conto rilevare come pure la (contraria) tesi del passaggio in giudicato del decreto di esecutività dello stato passivo non opposto abbia trovato e continui a trovare autorevolissime adesioni: perché mai, quindi, la Corte costituzionale nell’affrontare la questione de qua ha preferito imboccare itinerari così tortuosi, anziché percorrere la più agevole strada che abbiamo sopra additato?

      Forse perché preoccupata non tanto di risolvere quella questione, quanto piuttosto di consolidare gli ostacoli da essa progressivamente frapposti alla piena attuazione della garanzia della terzietà del giudice civile?

 

 

6. – (Segue) Le questioni relative al giudice che abbia provveduto sull’istanza ex art. 186 quater c.p.c. ed al giudice delegato che abbia autorizzato il curatore a promuovere l’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall.

 

      Questo stesso dubbio sorge leggendo le motivazioni delle ordinanze, con le quali sono state dichiarate manifestamente infondate le questioni relative al giudice che abbia provveduto sull’istanza ex art. 186 quater c.p.c. ed al giudice delegato che abbia autorizzato il curatore a promuovere l’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall.

      Nel primo caso, infatti, la Corte costituzionale, anziché  limitarsi a sottolineare il carattere meramente anticipatorio dell’ordinanza ex art. 186 quater per rifarsi alla terza delle “precisazioni” fatte da Corte cost. 24 aprile 1996 n. 131 (“il giudice chiamato al giudizio di merito non incorre in incompatibilità tutte le volte in cui compie valutazioni preliminari, anche di merito, destinate a sfociare in quella conclusiva”), ha avvertito invece l’esigenza di precisare che nell’emanare la decisione finale il giudice non deve “inevitabilmente ripercorrerre l’identico itinerario logico-decisionale già seguito onde pervenire all’adozione dell’ordinanza stessa”, avendo la possibilità “di prendere in considerazione le ragioni ulteriormente svolte dalle parti, quantomeno, in sede di comparse conclusionali, memorie di replica ed eventuale discussione orale”: come se volesse porre così le premesse per la creazione di un ulteriore ostacolo, rappresentato dalla preesistenza di valutazioni operate sullo stesso materiale di causa!

      Nel secondo caso, poi, i Giudici costituzionali, i quali avrebbero ben potuto rifarsi alla sentenza 7 novembre 1997 n. 326 per affermare che l’autorizzazione de qua del giudice delegato esclude valutazioni contenutistiche e muove da un apprezzamento di semplice verosimiglianza, hanno preferito scrivere che “l’autorizzazione all’esercizio di responsabilità non è un provvedimento giurisdizionale di carattere decisorio”: e poiché con tale espressione è stato inteso il provvedimento “suscettibile di assumere  effetti di giudicato” (come specificato dalla coeva sentenza 28 maggio 2001 n. 167), si è confezionato un altro argomento idoneo a scoraggiare la riproposizione della questione relativa al giudice che abbia concesso una misura cautelare ante causam!

 

 

7. – (Segue) La questione  riguardante il giudice dell’opposizione agli atti esecutivi avente ad oggetto un provvedimento dallo stesso emesso quale giudice dell’esecuzione.

     

      Nel dichiarare manifestamente infondata la questione  riguardante il giudice dell’opposizione agli atti esecutivi avente ad oggetto un provvedimento dallo stesso emesso quale organo dell’esecuzione, la Consulta ha osservato che:

a)       non vi è “identità di res judicanda tra il processo esecutivo e l’eventuale causa di opposizione”;

b)       quest’ultima non rappresenta “un’impugnazione in senso proprio, dal momento che il giudice dell’opposizione agli atti esecutivi, anche quando l’oggetto dell’opposizione è costituito da un provvedimento del giudice dell’esecuzione, giudica in un processo a cognizione piena, nel contraddittorio delle parti, sulle cui domande ed eccezioni deve in ogni caso pronunciarsi”.

 

      Codesta ordinanza, tuttavia, rivela una superficiale conoscenza dell’organizzazione tecnica del processo esecutivo, del modus operandi dei suoi organi (e del giudice dell’esecuzione in particolare) e dei suoi rapporti  strutturali e funzionali con l’opposizione ex art. 617 c.p.c.

      Infatti:

A)      “il processo esecutivo si presenta strutturato non già come una sequenza continua di atti ordinati ad un unico provvedimento finale – secondo lo schema proprio del processo di cognizione – bensì come una successione di subprocedimenti, cioè in una serie autonoma di atti ordinati a distinti provvedimenti successivi”;

B)       conseguentemente,  per individuare la res judicanda (l’oggetto, cioè, della questione risolta dal giudice) occorre comparare l’oggetto della causa di opposizione con quello del singolo subprocedimento esecutivo, di cui il provvedimento del giudice dell’esecuzione rappresenta l’epilogo;

C)      in questa prospettiva, è innegabile che il giudice dell’esecuzione provvede sulla base di una valutazione contenutisticamente corrispondente a quella, che sarà chiamato  a compiere il giudice dell’opposizione (eventualmente) proposta ex art. 617 c.p.c. avverso il provvedimento esecutivo;

D)      tale conclusione risulta vieppiù vera, se si considera che: D1) il giudice dell’esecuzione, prima di pronunciare i provvedimenti di volta in volta richiestigli, deve verificare i presupposti  di legittimità e di opportunità dell’atto emanando; D2) il complesso delle operazione intellettive (id est: cognitive) concretanti codesta verifica si risolve in una “<<cognizione>> in seno al processo esecutivo allo stesso modo che in seno al giudizio di accertamento; nell’uno come nell’altro caso, infatti, il conoscere si pone egualmente in funzione del provvedere: onde si conosce per <<facere jus>> così come – del pari – si conosce per <<dicere jus>>”; D3) lo stesso tipo di attività (cognizione c.d. impropria o strumentale) è destinato a compiere il giudice dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. avente ad oggetto un atto del giudice dell’esecuzione, atteso che la stessa  (opposizione) per la sua natura squisitamente processuale [e non di merito] può essere proposta per motivi di invalidità e/o di inopportunità del provvedimento opposto e si risolve, quindi, in un riesame [scilicet: nei limiti dei motivi concretamente dedotti] dei presupposti di legittimità e/o di opportunità del provvedimento medesimo;      

E)       in virtù degli artt. 485 e 487 c.p.c. anche il giudice dell’esecuzione provvede “nel contraddittorio delle parti, sulle cui domande ed eccezioni deve in ogni caso pronunciarsi”;

F)       se è innegabile che l’opposizione agli atti esecutivi non è un’impugnazione in senso proprio [non rientrando nella previsione ex art. 323 c.p.c.], è altrettanto innegabile che divisare l’operatività del principio dell’imparzialità-terzietà del giudice ex art. 111, comma 2, Cost. solo rispetto alle impugnazioni c.d. tipiche (come ha praticamente fatto la Consulta con l’ordinanza in esame) equivale a confinare l’operatività di quel principio  (soltanto) ai diversi gradi del processo ordinario di cognizione e, quindi, alle sole ipotesi ex art. 51, comma 1, n. 4, c.p.c. (che, infatti, si riferisce al giudice “che ha conosciuto come magistrato in altro grado del processo”): in tal modo, peraltro,   non solamente si manipola il dettato dell’art. 111, comma 2, Cost. [per il quale  “ogni processo” (e, quindi, non soltanto il diverso grado di un processo ordinario di cognizione”) deve svolgersi “davanti a giudice terzo e imparziale”], ma  si opera pure una (inammissibile) interpretazione “alla rovescia” delle norme costituzionali (finalizzata, cioè, ad adeguare le medesime alla legislazione ordinaria vigente anziché a rapportare questa al significato intrinseco di quelle), surrettiziamente subordinandole così alle leggi ordinarie ed “invertendo il naturale rapporto per cui sono le prime ad incidere sulle seconde”;

G)      data la tendenziale identità oggettiva (res judicanda) e soggettiva tra il  giudizio di opposizione ex art. 617 ed il subprocedimento sfociante nel provvedimento opposto del giudice dell’esecuzione, l’incompatibilità di quest’ultimo rispetto al primo (giudizio di opposizione ex art. 617 c.p.c.) appare un’inevitabile conseguenza della (indiscussa) autonomia strutturale dell’opposizione de qua rispetto al processo esecutivo, indipendentemente dal riconoscimento (o meno) alla medesima della natura di impugnazione (c.d. atipica).

 

      La diversità soggettiva del giudice dell’esecuzione rispetto al magistrato chiamato ad istruire ed a decidere in funzione di giudice unico l’opposizione ex art. 617 riguardante un provvedimento del medesimo (giudice dell’esecuzione), anzi, a ben considerare è imposta non solo dal principio costituzionale della terzietà del giudice, ma anche dalla c.d. direttiva di razionalità dell’ordinamento giuridico ex art. 3 Cost.

      Invero:

a)       le ordinanze del giudice dell’esecuzione si considerano soggette al rimedio (c.d. esterno) dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. ed a quello (c.d. interno) della revoca (o modifica) ad opera dello stesso giudice ex art. 487, comma 1, c.p.c.;

b)       più esattamente, tali rimedi vengono ormai considerati concorrenti;

c)       “dottrina e giurisprudenza sono oggi orientate nel senso di ritenere che il giudice dell’esecuzione possa revocare i propri provvedimenti non solo per la ragione di una loro sopravvenuta inopportunità, ma anche per una diversa valutazione della loro originaria validità” e/o opportunità;

d)       l’opposizione, peraltro, è proponibile solo nel termine perentorio (ergo: a pena di decadenza ) di cinque giorni previsto dall’art. 617, comma 2, ultima parte, c.p.c., mentre il potere di revoca (o modifica) può essere esercitato dal giudice dell’esecuzione d’ufficio o su istanza di parte finchè il provvedimento non abbia avuto attuazione “e, perciò, senza limiti di tempo se a contenuto negativo, come tale insuscettivo di esecuzione”;

e)       la mancata proposizione dell’opposizione agli atti esecutivi, pertanto, non impedisce alla parte interessata di chiedere al giudice dell’esecuzione di revocare (o modificare) un suo precedente provvedimento non ancora eseguito o insuscettibile di attuazione, allegandone l’originaria illegittimità e/o inopportunità;

f)       in questa prospettiva, la previsione di un’opposizione agli atti esecutivi ancorata al brevissimo termine perentorio ex art. 617 c.p.c. sarebbe intrinsecamente irragionevole (e, quindi, lesiva del principio di razionalità ex art. 3 Cost.) perchè risolventesi nella maggior parte dei casi nella predisposizione di un rimedio inutile (attesa – ripetesi – la persistente deducibilità dei vizi di legittimità e/o di opportunità del provvedimento non ancora eseguito o insuscettivo di attuazione con l’istanza della parte interessata intesa ad ottenerne la revoca ad opera del giudice dell’esecuzione), se non si ammettesse la necessaria diversità tra il magistrato-giudice dell’esecuzione (titolare del potere “ultrattivo” di revoca) ed il magistrato competente a provvedere sull’opposizione de qua.  

 

 

8. – (Segue) Il falso  revirement  di Corte cost. 15 ottobre 1999 n. 387.

 

      E’ arrivato finalmente il momento di considerare la pronuncia, con la quale si era sperato in un revirement della Consulta in subiecta materia: trattasi – come tutti ben sanno – di Corte cost. 15 ottobre 1999 n. 387.

      Con questa sentenza (interpretativa di rigetto) la Corte ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.  51, comma 1 n. 4, e comma 2, c.p.c., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità tra le funzioni del giudice pronunciatosi con decreto ex art. 28, comma 1, l. 20 maggio 1970 n. 300 e quelle del giudice dell’opposizione a tale decreto ex art. 28, comma 3, della stessa legge, in quanto:

A)      la disposizione impugnata, nella parte in cui prevede che il giudice ha l’obbligo di astenersi se ha conosciuto la causa <<in altro grado del processo>>, “non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere, con una interpretazione conforme a Costituzione, anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorchè avanti allo stesso organo giudiziario”;

B)       conseguentemente, “l’interprete è tenuto ad una esegesi costituzionalmente corretta della norma denunciata, tale da ricomprendere, tra le ipotesi, dalla stessa contemplate, di obbligo di astensione del giudice per avere conosciuto della causa in altro grado, quella dell’opposizione a decreto dallo stesso emesso ex art. 28, 1° comma, l. n. 300 del 1970”.

 

      Stupisce, anzitutto, il fatto che la Corte costituzionale abbia nella fattispecie affermato che “la valutazione delle condizioni che legittimano il provvedimento ex art. 28 non diverge, quanto a parametri di giudizio, da quella che deve compiere il giudice dell’eventuale opposizione, se non per il carattere del contraddittorio e della cognizione sommaria”.

      Invero, tanto la cognizione del giudice adìto ex art. 28, comma 1, l. n. 300 del 1970 (che provvede “assunte sommarie informazioni”), quanto quella del giudice del procedimento cautelare ante causam [che provvede dopo l’assunzione degli “atti di istruzione indispensabili in relazione ai presupposti e ai fini del provvedimento richiesto” (art. 669 sexies, comma 1, c.p.c.): i quali (atti) sembrano, anzi, avere una valenza probatoria più accentuata rispetto a quella delle “sommarie informazioni” legittimanti la pronuncia del provvedimento inaudita altera parte ai sensi dell’art. 669 sexies, comma 2!], si risolvono in valutazioni contenutistiche della stessa natura e della stessa intensità: di guisa che resta incomprensibile il motivo per il quale la Consulta abbia affermato nel primo caso ed escluso, invece, nel secondo caso l’identità di res iudicanda rispetto all’oggetto del successivo procedimento a cognizione piena.

      In secondo luogo, poi, va messa in risalto la circostanza che con la sentenza in discorso la Corte costituzionale ha postulato l’operatività dell’ipotesi di astensione ex art. 51 n. 4 in presenza di due fasi processuali che non solo siano autonome l’una rispetto all’altra e che non solo abbiano funzione impugnatoria la seconda rispetto alla prima [così frustrando sul nascere le speranze di un revirement rispetto alle precedenti pronunce riguardanti il giudice che abbia concesso un provvedimento cautelare ante causam (speranze ipotizzabili alla stregua di quanto abbiamo testè osservato a proposito della sommarietà della relativa cognizione) ed il giudice nuovamente investito della medesima controversia ai sensi dell’art. 354 c.p.c. in seguito alla dichiarazione di nullità della sentenza, da parte del giudice d’appello, per pretermissione di litisconsorti necessari], ma che si concludano pure ed  entrambe con pronunce aventi natura decisoria sul merito dell’azione proposta.

      Così facendo, infatti, la Consulta – a ben considerare – ha creato un ulteriore ostacolo alla piena attuazione della garanzia della terzietà del giudice civile, destinata a restare “lettera morta” in tutta una serie di ipotesi, rispetto alle quali il valore stesso del “giusto processo” suggerisce la presenza di un “giudice diverso”: com’è già successo rispetto al giudice dell’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c. chiamato a sindacare la legittimità o l’opportunità di un atto da egli stesso compiuto quale giudice dell’esecuzione [atto che giammai può avere contenuto decisorio]; e com’è destinato a succedere, per esempio, rispetto al collegio investito  del reclamo ex artt. 739-740 c.p.c., del quale faccia parte il magistrato che abbia pronunciato il provvedimento camerale reclamato [al quale (provvedimento) si tende a negare l’idoneità al giudicato (e, quindi, la decisorietà) per carenza del requisito della definitività, attesa la sua revocabilità ex art. 742 c.p.c.].

      Alla stregua di quanto precede, dunque, è del tutto ingiustificato l’entusiasmo con il quale molti commentatori hanno “salutato” Corte cost. 15 ottobre 1999 n. 387: il cui unico obiettivo sembra essere stato (non già quello di esaltare la garanzia costituzionale della terzietà del giudice civile, ma) soltanto quello di “recuperare” una preesistente ipotesi di astensione c.d. obbligatoria.

 

 

9. – Conclusioni

 

      Il lungo discorso fatto nelle pagine precedenti a proposito della “mortificazione” della garanzia della terzietà del giudice civile ad opera della recente giurisprudenza costituzionale ci consente conclusivamente di cogliere il “vero” significato dell’ art. 111, comma 2, Cost. nel testo novellato dall’art. 1 l. cost. 23 novembre 1999 n. 2.

      Se è innegabile, infatti, che “l’art. 111 Cost., nella nuova formulazione, non introduce ... <<profili nuovi o diversi di illegittimità costituzionale, essendo la terzietà e l’imparzialità del giudice ... pienamente tutelata nella carta costituzionale, anche anteriormente alla citata novella>>”; è altrettanto innegabile che, novellando la norma in discorso, il Legislatore costituzionale ha voluto “rivolgersi” proprio alla Consulta, sollecitandone quasi un’applicazione del valore dell’imparzialità del giudice svincolata da criteri restrittivi e/o formalistici  (com’è finora avvenuto) ed ispirata, invece,  al principio di effettività: il quale, favorendo l’estrinsecazione e lo sviluppo di tutte le potenzialità garantistiche latenti nelle norme costituzionali, consente di “ascrivere a quelle norme un significato <<forte>>, che possa avere un’incidenza concreta e diretta sul progresso evolutivo delle istituzioni processuali”.

      Preso atto, tuttavia, che anche la giurisprudenza costituzionale successiva alla l. cost. 23 novembre 1999 n. 2 si è rivelata insensibile al suo pur autorevole monito, c’è da pensare e da sperare che solo un … “ricambio generazionale” nella composizione soggettiva della Corte potrà consentire al “nuovo” art. 111, 2,  Cost. di aprire finalmente una breccia in quella  giurisprudenza!