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L’influenza della normativa comunitaria sul trasferimento d’azienda

Scritto da Barbara Palombi

1. Premessa 

2. Dalla direttiva n. 77/187 alla nuova direttiva n. 98/50 e suo recepimento nell’ordinamento italiano attraverso il d.lgs. 2001 n. 18. 

3. Aspetti rilevanti introdotti dalla nuova direttiva n. 98/50: la nozione di trasferimento d’azienda nella disciplina comunitaria, un punto di frizione con l’ordinamento interno. 

4. Tutela individuale nel trasferimento d’azienda e suoi riflessi sull’ordinamento italiano 

4.1 in particolare: il diritto di opposizione del lavoratore 

5. Tutela collettiva e ruolo del sindacato nel trasferimento d’azienda 

 

 

 1. Premessa

 

Le profonde modificazioni strutturali in atto nel mondo dell’impresa, volta ad adeguarsi al veloce ritmo delle tecnologie e sempre più a conseguire risparmi o ottimizzazioni organizzative attraverso l’espunzione dal ciclo produttivo di attività che l’imprenditore reputa più conveniente affidare a strutture esterne, hanno naturalmente una forte ricaduta sull’esperienza lavorativa, che si configura sempre meno come un rapporto stabile e duraturo.

In quest’ambito, il trasferimento d’azienda è un istituto giuridico che, funzionale alle operazioni di mutamento soggettivo dell’impresa, risponde all’esigenza di tutela e garanzia del lavoratore.

Ciò si evince dalla stessa disciplina comunitaria che, prima con la direttiva n. 77/187 poi con la n. 98/50, senza mai alcun richiamo alle esigenze di flessibilità o competitività dell’impresa, risulta da sempre sostanzialmente incentrata sulla conservazione dei rapporti di lavoro, in funzione del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei soggetti, e a tutela dei diritti dei lavoratori.

In tal senso, si esprime anche il nostro ordinamento nel quale la normativa comunitaria è stata recepita attraverso il D.Lgs. 2001 n. 18 che ha completamente modificato e riscritto l’art. 2112 del codice civile.

A fronte pertanto delle spinte dell’economia reale verso soluzioni di trasformazione e decentramento produttivo, dei sempre più frequenti fenomeni di destrutturazione aziendale e di esternalizzazione, attuati attraverso il ricorso all’istituto del trasferimento d’azienda, permane centrale, l’esigenza di mantenere e continuamente riconfigurare, nel segno dell’ormai irrinunciabile flessibilità, le insopprimibili garanzie a sostegno del lavoro e dei lavoratori e la ricerca di un delicato equilibrio tra le diverse componenti coinvolte.

 

 

 2. Dalla Direttiva n. 77/187 alla nuova Direttiva n. 98/50 e suo recepimento nell’ordinamento italiano attraverso il D.Lgs. 2001 n. 18.

 

Destinata ad armonizzare le legislazioni nazionali circa il mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, la direttiva n. 77/187 del 14 febbraio 1977,  con l’obiettivo primario di evitare che la ristrutturazione delle imprese nell’ambito della Comunità Europea comporti conseguenze negative per i dipendenti, assume una portata garantistica assai ampia nei confronti del c.d. contraente debole.

La sua rilevanza deriva anche dalla circostanza che, unitamente ad altre quattro direttive adottate in quegli anni ovvero quella sulla parità retributiva uomo-donna n. 75/117; quella sui licenziamenti collettivi n. 75/175; sulla parità di trattamento uomo-donna n. 76/206; sull’insolvenza del datore di lavoro n. 80/987,  rappresenta il nocciolo duro del diritto comunitario del lavoro o meglio il c.d. “sistema di politica sociale europea”.[1]  

Frutto di una rinnovata e forte sensibilità che i Padri fondatori ebbero in quel decennio verso la tematica del sociale, la direttiva si applica “ai trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti a un nuovo imprenditore in seguito a cessione contrattuale o a fusione e, comunque nel caso e nei limiti in cui l’impresa, lo stabilimento o parte di esso da trasferire si trovi nell’area di applicazione del Trattato” (art.1).

Dal disposto dell’art. 1 si evince chiaramente come ha un’area d’impatto notevolmente ampia. A condizione infatti che l’azienda trasferita mantenga la sua identità, proseguendo l’attività originaria, o una sua autonoma funzionalità, il trasferimento d’azienda ricomprende tutte le ipotesi di sostituzione a qualunque  titolo della persona fisica o giuridica del datore di lavoro, indipendentemente dalle vicende relative alla titolarità dell’impresa.

Il passaggio di azienda si pone in termini neutri per i lavoratori che non devono essere oggetto di trattamenti meno favorevoli, posto che l’obiettivo primario non è quello di assicurare la funzionalità operativa dell’impresa, quanto di adottare le disposizioni necessarie per proteggere i lavoratori assicurando il mantenimento dei loro diritti.

Dopo anni di applicazione, e alla luce della giurisprudenza della Corte di  Giustizia, la n. 77/187 è stata ampiamente rivisitata dalla direttiva n. 98/50 del 28 giugno 1998 nei cui preamboli si pone in luce, in particolare, l’esigenza di chiarire la nozione giuridica di trasferimento d’impresa.

Posto che una delle principali innovazioni di questa direttiva è la precisazione e l’ampliamento del concetto di trasferimento d’impresa fino a ricomprendervi ogni cessione che derivi da contratto, da disposizione del giudice o di legge o provvedimento amministrativo, nonché i casi d’insolvenza trattati in procedure non liquidatorie, le ulteriori proposte di emendamento avanzate dalla Commissione, in essa trasfuse riguardano altresì: 1) la continuità dei contratti di lavoro in forza della quale, i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro alla data del trasferimento, sono in conseguenza dello stesso, trasferiti al cessionario; 2) la protezione riconosciuta alle rappresentanze sindacali aziendali dei lavoratori, destinate a restare in funzione qualora l’impresa trasferita conservi la propria autonomia o, quando questa autonomia venga meno, la garanzia di una rappresentanza per i lavoratori trasferiti durante il periodo necessario alla costituzione della nuova rappresentanza aziendale; 3) la precisazione che gli obblighi d’informazione e di consultazione dei lavoratori coinvolti nel trasferimento sussistono a prescindere dal fatto che la decisione di trasferimento sia adottata dal datore di lavoro, da un’impresa holding o dal centro direzionale dell’impresa con più sedi, per evitare che si adduca come giustificazione il fatto che l’impresa madre abbia omesso d’informare di ciò il datore di lavoro.[2]

Tutto chiaramente in linea, sia con quanto dispongono altre direttive adottate in quegli anni, riguardanti l’occupazione e i diritti d’informazione e di consultazione in ipotesi di trasferimenti o concentrazioni di imprese dalle dimensioni transnazionali  sia,  con la costante e forte  attenzione rivolta dalla Comunità europea ai valori sociali.

In attuazione della direttiva n. 98/50 è intervenuto di lì a poco il legislatore nazionale, emanando il decreto legislativo del 2 febbraio 2001 n. 18 con cui si sono introdotte significative modifiche all’art. 2112 c.c. Il decreto ha avuto l’obiettivo di armonizzare la norma italiana con quella comunitaria, e con questo intento ha riscritto l’art. 2112 del codice civile, in cui vengono trasfusi i risultati raggiunti a livello comunitario.

Le modifiche più rilevanti introdotte nel nostro ordinamento riguardano essenzialmente la nozione stessa di trasferimento di azienda e quindi la delimitazione del campo di applicazione della norma; gli effetti del trasferimento sui contratti collettivi applicabili; le procedure d’informazione e consultazione sindacale.

La prima sostanziale modifica apportata all’art. 2112 c.c. è stato il recepimento, attraverso l’aggiunta del 5 comma, di quanto ormai da tempo si sosteneva sia in dottrina che in giurisprudenza comunitaria, ovvero che si è in presenza di un trasferimento d’azienda tutte le volte in cui vi è una sostituzione del soggetto titolare, indipendentemente dallo strumento giuridico utilizzato per il passaggio dal cedente al cessionario sia esso vendita, usufrutto, affitto, successione negli appalti. Precisando come  il trasferimento d’azienda sia “qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata……al fine della produzione e dello scambio di beni o di servizi preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità a prescindere dal carattere negoziale o dal provvedimento sulla base dei quali il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto d’azienda”  [3], l’articolo 2112 c.c. con un finalizzato intento qualificatorio, ha introdotto ulteriori elementi con i quali lascia aperti nuovi  e diversi ambiti di applicazione che si colgono sia nell’uso del termine “operazione” con cui il legislatore identifica il momento del passaggio nella titolarità dell’azienda; sia nell’introduzione nell’ordinamento nazionale di un’importantissima novità rappresentata dal trasferimento di “parte dell’azienda” che naturalmente abbia una sua articolazione autonoma, una sua propria consistenza economica organizzata e quindi una propria identità. [4]

 

 3. Aspetti rilevanti introdotti dalla nuova Direttiva n. 98/50: la nozione di trasferimento d’azienda nella disciplina comunitaria, un punto di frizione con l’ordinamento interno. 

 

La sintetica definizione di trasferimento di azienda contenuta nell’art. 1 della direttiva n.77/187 è stata successivamente precisata ed ampliata dalla Commissione Europea che ha formulato una proposta di modifica proprio nel senso di allargare le maglie dell’ambito di applicabilità  della stessa.

La latitudine fenomenica della nozione raggiunge il suo apice laddove nell’art. 1 della direttiva n.98/50 si dispone che “per trasferimento s’intende quello di un’entità economica che conserva la propria identità di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”……..e laddove si prevede che essa si applica anche alle imprese, “pubbliche o private che esercitano un’attività economica, sia che perseguono o meno  uno scopo di lucro”.

La nuova norma, da cui si evince una nozione comunitaria di trasferimento d’azienda senza dubbio elastica ed aperta, risponde ad una precisa esigenza che è quella di adeguare la definizione giuridica ai cambiamenti che nel corso del ventennio si sono susseguiti in ambito economico e che hanno coinvolto naturalmente le trasformazioni e le successioni di imprese.

Il rischio cui avrebbe portato il mantenimento di una definizione rigida in un contesto applicativo fortemente dinamico, sarebbe stato certamente quello di indebolire irrimediabilmente il fine protettivo della direttiva comunitaria, non più in grado ormai di disciplinare i nuovi emergenti fenomeni di avvicendamento imprenditoriale.[5]

La Corte certamente nella sua ventennale attività ha offerto un apporto interpretativo della disciplina comunitaria sul trasferimento d’azienda  assai significativo.

Essa da sempre ha elevato ad unico elemento qualificatorio dell’istituto quello della  continuazione dell’attività, rispetto agli aspetti propriamente strutturali dell’azienda, come ad esempio il complesso di beni, che ha avuto solo un valore marginale così  da essere ridotto a mero indizio di un’operazione di trasferimento in atto.

L’attenzione dei giudici della Corte si è focalizzata in un primo tempo sul concetto di operazione ovvero “sulla dismissione di un’attività da parte di un’impresa e sulla prosecuzione della stessa da parte di un’altra”, per cui l’azienda era intesa  sostanzialmente come un’insieme di attività economiche sia esse principali o accessorie, con la conseguenza che ogni operazione di esternalizzazione diventava ipotesi di trasferimento d’azienda disciplinata dalla direttiva.

Ciò scaturisce in particolare dalla lettura di alcune famose  pronunce: dalla nota sentenza Spijkers alla Schmidt, alla sentenza Mercks in cui, affermando che “il criterio decisivo per stabilire l’esistenza di un trasferimento d’impresa o di parte di questa, è quello del mantenimento dell’identità dell’entità economica ravvisabile dal concreto proseguimento o dalla ripresa, da parte del nuovo imprenditore, delle stesse attività economiche o di attività analoghe”, si assiste ad un processo di rarefazione di quei criteri quali il trasferimento degli elementi patrimoniali dell’impresa, per arrivare ad una completa valorizzazione dei soli elementi della prosecuzione dell’attività economica e della similarità dell’attività ceduta, senza il mantenimento della struttura e dell’organizzazione dell’impresa.[6]   

Successivamente, nella più recente giurisprudenza della Corte, non si assiste ad una vera e propria ritirata delle precedenti posizioni, quanto all’ abbandono di una chiave di lettura del trasferimento d’azienda per così dire “estrema”, perché fondata esclusivamente sull’individuazione del solo elemento della prosecuzione dell’attività economica precedente. Quello che diviene rilevante agli occhi dei giudici è la valutazione della persistenza dell’attività organizzata, attraverso la permanenza di elementi significativi caratterizzanti l’attività oggetto del trasferimento. Tali elementi ancora una volta non sono identificati in quelli prettamente strutturali, quanto con uno specifico patrimonio costituito da una serie di competenze, dall’avviamento, da metodologie di organizzazione del lavoro, cioè con delle peculiarità proprie dell’attività economica precedente, quindi ancora una volta con fattori immateriali.

Alla luce di tali orientamenti giurisprudenziali la direttiva n. 98/50 ha proceduto sì alla de-materializzazione della nozione azienda attraverso una  formula definitoria tutta imperniata sull’ellittica nozione di “insieme di mezzi”, ma ha  anche cercato, con il costante richiamo al concetto di organizzazione, capace d’individuare un nucleo organizzativo funzionalizzato preesistente, d’inquadrare sistematicamente e quindi di delimitare il proliferare di fenomeni inediti di decentramento e di terziarizzazione dell’impresa, impedendo che mere prosecuzioni di attività economiche costituiscano delle operazioni rilevanti ai sensi  della direttiva comunitaria.

Quindi, nella pur ampia prospettiva adottata dalla direttiva in cui si disciplina anche il trasferimento di parti di imprese o c.d.  ramo d’azienda con l’evidente intento di assecondare quelle operazioni di esternalizzazione, si coglie tuttavia l’esigenza da parte del legislatore comunitario di operare un distinguo tra le stesse, effettuabili attraverso il ricorso ad una  vasta gamma di figure contrattuali come l’appalto, l’agenzia, il franchising ecc.., che, in quanto caratterizzate dalla mera prosecuzione di un’attività economica, non necessariamente rientrano nella sfera disciplinatoria della direttiva.

All’analisi finora condotta si deve aggiungere per dovere di completezza, l’ emergere di  un chiaro punto di attrito tra la nozione di trasferimento d’azienda accolta a livello comunitario e quella sostenuta dal diritto interno. Infatti se a livello comunitario rileva non tanto l’effettivo passaggio del complesso organico di beni aziendali, quanto il profilo funzionale della ripresa o della prosecuzione dell’attività economica da parte del cessionario, viceversa nel diritto interno, si dà centralità proprio all’elemento oggettivo dell’azienda intesa quale complesso di beni destinati all’esercizio dell’impresa e, in tale prospettiva, si considera rientrante nella fattispecie anche il trasferimento del ramo d’azienda solo in quanto riguardi un insieme di beni autonomamente suscettibile di costituire idoneo e compiuto strumento d’impresa.[7]

La giurisprudenza italiana chiamata ad interpretare l’art. 2112 c.c., pone  l’accento essenzialmente sulla cessione del complesso aziendale,  sull’attitudine produttiva dei beni trasferiti, sulla loro identità funzionale ed economica di autonomo strumento d’impresa,[8] ed esclude al contempo che la mera successione di due soggetti nell’esercizio di una medesima attività economica possa configurare come trasferimento d’azienda.

Posta questa differenza di accenti e di orientamenti tra il diritto comunitario e quello interno, occorre tuttavia precisare che, pur avendo delineato una nozione abbastanza ampia di trasferimento fino a ricomprendervi casi di esternalizzazione che secondo il diritto italiano non rientrerebbero nella fattispecie del trasferimento di azienda o di ramo di azienda, il legislatore comunitario ha agito cercando esclusivamente di estendere il più possibile la portata protettiva della direttiva n. 98/50 e di  armonizzare a certi standards di tutela i vari ordinamenti nazionali. Nel far ciò del resto egli  non ha mai dettato un concetto di impresa o di trasferimento d’impresa vincolante per gli Stati membri; quello che invece è vincolante e  rispetto a cui gli ordinamenti devono necessariamente adeguarsi è soltanto l’individuazione del campo di applicazione della disciplina di tutela dei lavoratori.[9]

 

 4. Tutela individuale nel trasferimento d’azienda e suoi riflessi sull’ordinamento italiano  

 

Come già per la precedente, anche per la nuova direttiva sul trasferimento d’azienda, il passaggio di titolarità dal cedente al cessionario dei rapporti di lavoro in corso al momento del trasferimento, costituisce un effetto automatico del trasferimento stesso e ciò in linea col principio dell’insensibilità del rapporto di lavoro rispetto alle vicende circolatorie del complesso aziendale.

Quella della continuità rappresenta senza dubbio un’importante ed ampia tutela che sul piano individuale il legislatore comunitario ha voluto assicurare ai lavoratori, chiarendo come l’effetto successorio si determina nei confronti di tutti i rapporti di lavoro giuridicamente esistenti nel momento in cui si perfeziona l’operazione traslativa, ivi inclusi i rapporti di lavoro part-time, a tempo determinato e interinali.

Direttamente funzionale al principio della prosecuzione dei rapporti di lavoro e a “suo rigoroso svolgimento”[10], stà la previsione secondo cui il trasferimento d’impresa non può costituire motivo di licenziamento né per il cedente né tantomeno per il cessionario; affermazione, successivamente temperata proprio  a seguito del riconoscimento, da parte del legislatore comunitario, della disciplina generale in materia di licenziamenti.

La norma infatti non ha lo scopo di impedire quei licenziamenti dovuti a motivi economici, tecnici o organizzativi che comportano cioè delle variazioni necessarie del piano occupazionale dell’azienda.

Ciò a dire che l’affermazione del principio di continuità del rapporto di lavoro non deve assolutamente essere convertito nel diverso principio della stabilità dello stesso, che  richiederebbe, diversamente dalla ratio comunitaria, che fosse inibita qualunque facoltà del datore di recedere dai rapporti di lavoro.[11]

Pertanto pur disponendo che il trasferimento d’azienda non può costituire motivo di licenziamento, la normativa comunitaria lascia aperta la strada a operazioni di ridimensionamento dell’organico che possono essere legittimamente effettuate, si badi bene, tanto dal cedente quanto dal cessionario.

Del resto la protezione offerta ai singoli avviene non solo mediante la garanzia del posto di lavoro, ma anche dei diritti e dei rispettivi obblighi connessi allo svolgimento dello stesso.

Dalla continuità dei rapporti di lavoro deriva infatti, come effetto automatico, che i diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro vigente al tempo del trasferimento, sono in conseguenza di questo trasferiti al cessionario.

Il  richiamo generale e senza restrizione alcuna, operato dalla direttiva “ai diritti” poi trasfuso nell’art. 2112 del codice civile, ha come scopo quello di garantire ad ogni singolo lavoratore di restare alle dipendenze del cessionario nella stessa situazione convenuta con il cedente qualunque sia la fonte da cui tali diritti originano, mantenendo così intatta l’intera situazione soggettiva. Una tutela conservativa pertanto che ricomprende tutte quelle situazioni soggettive che sono in qualche modo funzionalmente collegate al rapporto di lavoro, e già esistenti nel patrimonio giuridico del lavoratore all’atto della cessione del complesso aziendale. Ne deriva l’esclusione da tale tutela conservativa di quei diritti che nonostante facciano parte del patrimonio del lavoratore, hanno origine in rapporti di lavoro ormai estinti, come nel caso di chi cessato il servizio, vanta ancora dei crediti nei confronti del datore di lavoro; mentre sono mantenuti i diritti derivanti dall’anzianità di servizio presso l’azienda ceduta, ma non anche quelli spettanti ai dipendenti dell’impresa cessionaria derivanti da cause particolari verificatesi prima del trasferimento.[12]

La tutela del lavoratore non è quindi esclusivamente limitata allo stato di fatto esistente al momento del trasferimento dell’azienda, ma anche e soprattutto a quello di diritto, nel senso che i diritti “acquisiti”, derivanti dal contratto individuale o collettivo, non possono essere in nessun modo pregiudicati dalle vicende riguardanti il trasferimento d’azienda. [13]

Tale principio della conservazione dei diritti, in perfetta rispondenza  all’applicazione della previgente disciplina collettiva, deve tuttavia coordinarsi con la possibile applicazione da parte del cessionario di un diverso contratto collettivo, conformemente a quanto previsto da entrambe le direttive comunitarie e successivamente recepito anche dalla normativa interna nell’art. 2112 del codice civile. Infatti con la possibile sostituzione del contratto collettivo con altri contratti applicabili all’impresa dell’acquirente, il legislatore comunitario e poi quello nazionale hanno inteso contemperare due distinte esigenze, ovvero quella di assicurare per quanto possibile la stabilità del rapporto di lavoro nei suoi contenuti originari complessivi, evitando traumatici mutamenti per il lavoratore; dall’altro quella di consentire un allineamento dello stesso rapporto al regime collettivo vigente all’interno della nuova compagine aziendale.[14]

Si tratta in realtà di una previsione soggetta a diverse interpretazioni ed indirizzata a seconda del significato attribuitole, alla realizzazione ora dell’una ora dell’altra esigenza. Volendo però seguire quell’interpretazione che appare maggiormente rispondente al tenore letterale della normativa e senz’altro alle finalità di tutela dei lavoratori, occorre precisare che il richiamo ai contratti collettivi “applicabili” e non a quelli “applicati” dal cessionario, lascia supporre il riferimento ad una regolamentazione futura e non preesistente e quindi che i lavoratori trasferiti conservano il contratto collettivo applicato dal cedente fino alla sua naturale scadenza a meno che, non intervenga a sostituirlo una nuova regolamentazione collettiva contestuale o successiva al trasferimento, s’intende anche peggiorativa, salvo tuttavia i diritti “quesiti”.[15]

 

 4.1 In particolare: il diritto di opposizione del lavoratore

 

Massima espressione della tutela individuale e novità più significativa in tema di trasferimento d’azienda, verso la quale pare indirizzarsi il diritto comunitario, è la previsione della possibilità per il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica, di opporsi al trasferimento del suo rapporto e di non fruire quindi della tutela accordatagli.

Verso questa soluzione è orientata non solo la direttiva n. 77/187 che attribuisce rilevanza cruciale al mantenimento delle condizioni contrattuali del rapporto di lavoro, tra le quali è indubbio che debba ricomprendersi la stessa organizzazione aziendale presente alla stipulazione del contratto, ma anche la Corte di giustizia che non ha mancato occasione per pronunciarsi sulla questione e giungere gradualmente all’affermazione di un diritto di opposizione del lavoratore al trasferimento.  

In particolare la Corte, nella sentenza Katsikas, riconduce il diritto di opposizione direttamente all’art. 3.1 della direttiva che, a parere della stessa, non osta a che un lavoratore decida di opporsi al trasferimento del suo rapporto di lavoro, perché egli deve essere assolutamente libero di scegliere il suo datore di lavoro e non può essere obbligato, in nome del rispetto dei suoi diritti fondamentali, a lavorare per un datore che non ha liberamente scelto.[16] 

Il diritto di opposizione dunque, sostenuto dalla Corte, in virtù del quale si riconosce al lavoratore la possibilità di decidere unilateralmente di non continuare il rapporto con il nuovo datore, esigendo di rimanere alle dipendenze del cedente, impedisce il passaggio automatico del rapporto all’imprenditore cessionario, il quale rimane quindi estraneo al vincolo contrattuale, non “passato”, tra il lavoratore dissenziente e il cedente.   

La scelta dunque, dei giudici comunitari, di affrontare la questione e di risolverla sul piano dei principi generali operando un bilanciamento tra il carattere inderogabile delle direttive comunitarie e il fondamentale diritto di scelta del lavoratore, sfocia nella netta affermazione del diritto di opposizione alla prosecuzione del rapporto in capo al cessionario.

Ciò anche in linea con quanto dètta la Dichiarazione di Filadelfia sugli scopi e gli obiettivi dell’Organizzazione internazionale del lavoro secondo cui il lavoratore non è una merce,[17] né quindi può essere trasferito da un datore di lavoro ad un altro senza il suo consenso, equiparandolo ad uno dei vari elementi, ad una merce appunto, che compongono l’azienda oggetto del trasferimento.Tale orientamento della normativa comunitaria trae origine in realtà dalla forte valorizzazione della soggettività e autonomia del lavoratore anche e soprattutto nella valutazione del suo legame con l’azienda, con la quale, più che con la persona dell’imprenditore, s’instaura il rapporto contrattuale.

Se è l’impresa, infatti, nel suo substrato oggettivo di azienda, come organizzazione tecnica, come patrimonio umano e professionale, a rappresentare il parametro principale di determinazione della posizione contrattuale delle parti e rispetto alla quale si determinano una serie di obblighi e di diritti, [18] questa non è certo quella disegnabile discrezionalmente dall’imprenditore, bensì quella con la quale il lavoratore ha scelto liberamente di lavorare e di mantenere nel tempo il suo rapporto contrattuale.

In quest’idea di impresa, in cui c’è posto per principi fondamentali comuni a tutti gli ordinamenti civili come quello che sancisce il rifiuto della mercificazione del lavoro e del lavoratore, come quello che riconosce la libertà contrattuale, la libera scelta dell’attività lavorativa, trova spazio e rilevanza il diritto di opposizione/consenso del lavoratore al trasferimento.

In quest’ottica si comprende anche come il consenso in tema di trasferimento assuma maggiore rilievo quando ad essere trasferita sia solo una parte dell’azienda ovvero nell’ ipotesi di c.d. esternalizzazione, in cui spesso viene proprio a mancare l’organizzazione aziendale come termine di riferimento,  consistendo questa il più delle volte in un semplice trasferimento di attività, non accompagnato dalla cessione di un complesso organizzativo autonomo.

In situazioni di decentramento produttivo, sempre più frequenti e alle quali si accompagna sovente un indebolimento delle condizioni di lavoro e delle prospettive di stabilità occupazionale, estendere semplicemente e rigidamente, come fa l’ordinamento nazionale, la regola dell’ art. 2112 c.c., affermando l’assoluta inderogabilità del principio della successione del rapporto contrattuale e quindi l’irrilevanza del consenso del lavoratore, risulta per la verità assai difficile.

Per cui il mancato riconoscimento di questo diritto nell’art. 2112 c.c., tocca il cuore della nostra disciplina giuridica, per la quale evidentemente, le esigenze di protezione dell’autonomia individuale vengono sacrificate a fronte di quelle legate al traffico commerciale, legislativamente giudicate prevalenti.

 

 

 5. Tutela collettiva e ruolo del sindacato nel trasferimento d’azienda

 

Nel passare dall’analisi della tutela individuale a quella collettiva va segnalata la particolare protezione che la direttiva comunitaria n. 77/187 riconosce ai lavoratori coinvolti nel trasferimento d’impresa, attraverso la previsione di una procedura di informazione e consultazione sindacale, successivamente ripresa dalla direttiva n. 98/50.

Il legislatore attraverso il rafforzamento e il sostegno all’azione del sindacato, dispone un’ampia tutela al lavoratore-dipendente.[19]

Nello specifico, l’art. 6 della direttiva n. 98/50 prevede che il cedente e il cessionario sono tenuti ad informare i rappresentanti dei rispettivi lavoratori interessati da un trasferimento su diversi punti ovvero: sulla data effettiva o proposta del trasferimento; sui motivi del trasferimento; sulle conseguenze giuridiche, economiche e sociali del trasferimento; sulle misure previste nei confronti dei lavoratori.

Restano distinti, sempre secondo quanto statuisce la direttiva, gli obblighi del cedente e del cessionario: infatti mentre il cedente è tenuto a comunicare tali informazioni ai rappresentanti dei suoi lavoratori in tempo utile prima dell’attuazione del trasferimento, il cessionario è tenuto ad assolvere questi obblighi in tempo utile e in ogni caso prima che i suoi lavoratori siano direttamente lesi nelle loro condizioni di impiego e di lavoro. All’informazione dovrà far seguito una consultazione sulle misure eventualmente previste nei confronti dei lavoratori, al fine di ricercare un accordo che consenta di attuare la vicenda circolatoria al più basso costo sociale.

Tali disposizioni poi recepite nell’ordinamento interno all’art. 47 della L. n. 428/90 attraverso il d.lgs. n. 18/2001, pur non comportando un particolare coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni dell’azienda, rappresentano un emblematico passaggio da una tutela esclusivamente individuale ad una tutela collettiva. Infatti attraverso l’imposizione di questa procedura il legislatore, rifacendosi all’esperienza delle relazioni industriali, ha disposto che i datori di lavoro, prima di assumere decisioni importanti per l’azienda e il futuro dei dipendenti, tengano conto degli interessi di costoro, armonizzandoli quanto più possibile, con ciò che è diretta espressione della loro libertà di iniziativa economica privata, ovvero il diritto di iniziare o cessare l’attività d’impresa.

Del resto la consapevolezza, da parte del legislatore comunitario, della varietà degli interessi in gioco, lascia intendere che la ratio della disciplina è proprio quella di ampliare e potenziare l’ambito d’intervento dell’azione sindacale, attraverso l’imposizione, ai soggetti coinvolti, di limiti procedimentali e sostanziali destinati ad indirizzare le parti verso la contrattazione collettiva, sede ritenuta più idonea per un’equilibrata composizione degli interessi. 

Appare evidente l’intenzione di consentire il coinvolgimento delle parti sociali nella fase in cui la trattativa risulta ancora indefinita, quando ancora i diretti interessati non hanno determinato per intero le condizioni del trasferimento; configurando dunque gli obblighi d’informazione e di consultazione non come una condizione di legittimità, ma di efficacia della decisione di effettuare il trasferimento, nel senso che il controllo del sindacato non può avere ad oggetto la decisione imprenditoriale, ma solo ed esclusivamente la valutazione delle conseguenze che questa può comportare per i lavoratori.[20]

Sebbene dunque non si riconosce al sindacato un potere di controllo sulle scelte operate dall’imprenditore, quanto piuttosto un diritto di consultazione finalizzato ad accertare le conseguenze derivanti ai lavoratori dal trasferimento, è pur vero che l’azione sindacale è in grado di fornire un presidio tale da modulare la protezione dei lavoratori e di realizzare un’autonoma strategia di tutela dei loro interessi.

Si realizza così un inevitabile intreccio tra il profilo sindacale e quello individuale, una necessaria interdipendenza che tuttavia non ci deve distogliere dal considerare come la procedura d’informazione e consultazione sia stata  prevista nell’interesse esclusivo del sindacato a sviluppare una propria azione di tutela in relazione al trasferimento d’azienda. Tant’è vero che il legislatore nazionale all’art. 47 della L. n. 428/1990, su indicazione della direttiva, considera il mancato rispetto dell’obbligo a rendere le informazioni dovute, un comportamento antisindacale censurabile come tale ai sensi dell’art. 28 della L. n. 300/1970.

Le considerazioni esposte implicano pertanto che il lavoratore non potrà far valere la violazione dei diritti di cui è esclusivo titolare il sindacato per eventualmente contrastare la cessione del proprio contratto di lavoro in capo al cessionario dell’azienda, poiché la procedura di consultazione resta attratta nella sfera dei rapporti collettivi e come tale, la sua gestione e tutela resta affidata al sindacato che è e rimane  l’unico titolare dell’interesse leso. [21]

Da questo scenario prefigurato dalle direttive comunitarie, emerge come il legislatore sia chiaramente orientato, a causa delle differenze esistenti tra i vari Pesi europei, a perseguire un processo di armonizzazione “al ribasso” dei sistemi normativi nazionali,[22] con la tendenza a realizzare un modello di partecipazione “debole”, quale appunto quello basato sui sistemi d’informazione e di consultazione, per cui è possibile adottare direttive anche a maggioranza qualificata; rispetto invece a quei modelli di partecipazione forte, vicini alla cogestione, per i quali è necessaria invece l’unanimità, e che richiedono, dove mancano, veri e propri interventi sulla struttura giuridica  dell’impresa.[23]

A conferma di quest’ orientamento comunitario e contrariamente ad un’interpretazione aperta della direttiva, che consentirebbe agli Stati sia di recepirla nella prospettiva della partecipazione sindacale laddove ci sia orienti già in tal senso, sia di recepirla in modo diverso da quegli Stati che non vogliono sposare questo modello, ci sono innumerevoli atti, in primis la direttiva sui Comitati Aziendali Europei e numerose pronunce della Commissione, a riprova di una decisa volontà comunitaria orientata nel senso della partecipazione.[24]   

Cedendo sempre più il passo al modello partecipativo, con la crescente valorizzazione dei diritti d’informazione e consultazione sindacale, in passato semplicemente relegati ad un ruolo marginale di mero controllo burocratico dell’attività imprenditoriale,  si è voluto allargare il campo d’intervento della contrattazione collettiva e la funzione del sindacato. Quest’ultimo deve avere dunque l’esatta rappresentazione sia della capacità economica e finanziaria dell’impresa trasferita, sia anche le intenzioni dell’acquirente in merito ai programmi produttivi, ai livelli occupazionali. Tale rappresentazione infatti risulta indispensabile sia per valutare la congruità delle misure concretamente approntate dalle imprese coinvolte per far fronte all’eventuale esubero occupazionale; sia per promuovere un confronto sindacale alla pari che possa attenuare le conseguenze sociali del trasferimento nella misura più compatibile con lo stato complessivo e il contesto produttivo trasferito. Questi sicuramente gli scopi di un diritto d’informazione e consultazione a tutto campo.

 

 



[1] R. FOGLIA, Il trasferimento d’azienda nell’Unione Europea la normativa comunitaria, in www.diritto-lavoro.it.

[2] R. FOGLIA, G. SANTORO PASSARELLI, Profili di diritto comunitario del lavoro, Giappichelli editore, 1996, pag. 147.

[3]  L. GOMBIA, La nuova disciplina del trasferimento d’azienda in  www.uilca.it.

[4] L. GOMBIA, ibidem.

[5] A. PIZZOFERRATO, La nozione giuslavoristica di trasferimento di azienda fra diritto comunitario e diritto interno, in RIDL, 1998, I, pag. 431.

[6] P. LAMBERTUCCI, La configurazione dell’azienda nel diritto comunitario e nel diritto interno, ai fini del suo trasferimento, in ADL, n.4, 1997, pag. 132.

[7] F. SCARPELLI, ibidem, pag. 359.

[8] A. PIZZOFERRATO, ibidem, pag. 449.

[9] F SCARPELLI,ibidem, pag.360,361.

[10] R.ROMEI, Il rapporto di lavoro nel trasferimento d’azienda, Giuffrè 1993, pag. 92.

[11] M. AIMO, Le garanzie individuali dei lavoratori, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1999, pag. 841.

[12] R. ROMEI, ibidem,pag. 62,63.

[13] A. CAIAFA, Mantenimento dei diritti dei lavoratori, in Nuove leggi civili, 2001 pag. 506.

[14] R. FOGLIA, Trasferimenti d’azienda ed effetti sui rapporti di lavoro,in Mass. giur. lav. 1991, pag. 334.

[15] M. AIMO, ibidem,pag. 847.

[16] M.MAGNANI, F. SCARPELLI, Trasferimento d’azienda ed esternalizzazioni, in Giornale diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 1999, pag. 500.

[17] P. O’ HIGGINS, Il lavoro non è una merce. Un contributo irlandese al diritto del lavoro, in Giornale diritto del lavoro e delle relazioni industriali, 1996, pag. 304.

[18] F. SCARPELLI, ibidem pag. 361.

[19] A. MARESCA, Fruibilità della tutela sindacale nel trasferimento d’azienda, in Massimario di giurisprudenza del lavoro, 2000, pag. 610.

[20] A. CAIAFA, ibidem, pag. 510.

[21] A. MARESCA,ibidem, pag. 611,612.

[22] A. PILATI, Prospettive comunitarie della partecipazione dei lavoratori, in Lav. dir., 1999, pag. 65. 

[23] P. PASSALACQUA, Trasferimento d’azienda e ruolo del sindacato, in Dir. del Lavoro, n.6, 2000, pag. 536. 

[24] P. PASSALACQUA, ibidem, pag. 537.