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Carattere e storia dell’idea di “cassazione”

Scritto da Paolo Pistone

Solo la storia, credo, può dare un senso alle istituzioni e mostrarne la razionalità; è solamente quindi in relazione a questa proprietà che essa può in qualsiasi momento risultare sorprendente, per qualche suo aspetto, non prevedibile o non conosciuto.
Qui il discorso riguarda la cassazione, sostantivo di origine latina ma che prende corpo e significato decisivo nella Francia del dopo '89; che è un'anfibologia (così ad esempio Salvatore Satta cinquant'anni fa in una voce di rinvio della Enciclopedia del diritto); ma la riguarda proprio per questo, ché - per caso o per necessità - quella parola racchiude in sé un legame forte, caratterizzante, fra il giudizio (valore processuale) e l'organo giudicante (valore politico-istituzionale). Ovverosia: la singolarità dell'istituto, se di singolarità si vuole parlare, va ricercata proprio nel nesso di necessità fra quei due aspetti.
Ma relativamente a questo tipo di valutazione la cassazione (considerando la evoluzione in concreto della idea stessa di Giustizia, che in certo senso la contiene o alla quale essa è profondamente connessa) suggerisce anche dell'altro e cioè che le idee in quanto tali si vedono alla fine; che esse se precedono la cognizione allora esistono non solo nel recinto filosofico di Platone laddove preesistono al mondo reale ma anche lo seguono e invece proprio nel fatto, a causa del loro rivelarsi tali attraverso e nonostante il tempo e le esperienze, laddove quasi al termine di un cammino se ne abbia la realizzazione.
Idea, insomma, come è tutt'altro che il concetto, così è qualcosa che nasce ed è mosso storicamente. Nel nostro caso specifico essa ha radici quasi-antiche e sembra attingere a un sentimento non pagano della Giustizia, almeno tanto quanto alla natura politica dell'uomo; essa così resiste ai secoli e giunge manifestandosi al cuore dell'èra moderna, laddove il suo compimento avviene allorquando il diritto costituzionale si specializza rispetto al diritto pubblico.
L'idea dunque, per essere radicata nel fatto, dev'essere forte e radicale; e l'impressione, a voler parlare di cassazione e considerando il diritto positivo, è che si tratti di qualcosa che è più istituzione, che è di più, di quanto non dicano gli spazi che ad essa sono stati dedicati nelle varie carte fondamentali. Quasi si trattasse di una idea più costituzionale - con attinenza alla costituzione in senso materiale - che traducibile in formali disposizioni di tenore costituzionale, se si fa eccezione sostanzialmente per il periodo rivoluzionario e postrivoluzionario della Francia moderna.
Per quanto anche emerge proprio dalla sua formazione, l'idea di cassazione è scomponibile in più profili: quello di una terza istanza di giudizio o di un remedium extra ordinem - e dunque di una non unicità-definitività della decisione; quello di una continuità, uniformità e contenimento nella interpretazione della legge (cosiddetta "nomofilachia", aspetto formalmente recente e meglio post-napoleonico, anche se in qualche modo inscritto nella cosa); quello di legalità e della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; quello indeclinabile - e anche qui come per i due casi precedenti si pensi mettiamo alla importanza della impugnazione dei provvedimenti de libertate - della certezza del diritto; quello della divisione (e necessario equilibrio) dei poteri; quello della giurisdizione sulla giurisdizione; quello direi di una generale compensazione degli errori nel processo e quello - ultimo ma certo non ultimo - della istituzione, dogmaticamente intesa, e per l'esattezza della istituzione pubblica. Ma enunciare i singoli aspetti non basta per comprendere e tutto ha un senso compiuto solo qualora si pensi che processo e politica, il cui legame ottiene dal principio di legalità un suggello decisivo, risultano essere in quella idea indubitabilmente connessi.

Per quanto riguarda gli aspetti processuali, vi è stato in anni passati chi, come Francesco Calasso, ha intravvisto (con quel sano razionalismo storico-giuridico che non può non essergli riconosciuto) certa quale genesi di quella idea nella nascita della differenza fra la querela iniquitatis, assimilabile alle ordinarie funzioni di appello, e la querela nullitatis, relativa a questioni di errores in procedendo, facendo risalire la distinzione - il suo primo riconoscimento nella dottrina processuale - al Basso Medioevo, sotto gl'influssi benefici dello studium di Bologna e in ordine alla necessità di organizzazione e normazione in proprio (statuta) dei comuni italiani, rivendicanti la loro autonomia rispetto all'Impero.
Il valore di quella distinzione, avendo essa anche avuto un séguito, può essere dato per vero; ma si può sempre eccepire rispetto a un siffatto profilo ricostruttivo che quella idea, nella sua pienezza, pur essendo nata dentro l'idea di Giustizia, non è contenibile né in una questione d'iniquità del giudizio né in una di vizi di procedura, mentre invece è in quella distinzione, quasi essa fosse pretesto, per ciò che solo la legge scritta e meglio l'autorità politica ne può dire, che si annida il senso del detto legame, fra processo - appunto - e istituzione pubblica. In altre parole: se i giuristi sistematori dell'età di mezzo e non solo (quali il Durand nello Speculum Iuris o il De Luca nel Theatrum veritatis et iustitiae) ne trassero sotto il profilo classificatorio piuttosto difficoltà ed imbarazzo, sarebbe toccato all'autorità, dacché essa si veniva evolvendo giuridicamente e affermando politicamente, risolvere la questione.
È sotto questo profilo del Calamandrei, ricordato sempre dal Calasso, la teoria della valutazione necessariamente politica degli errores suddetti, poiché la loro gravità risultava più o meno decisiva, a seconda che si trattasse di violazione del ius constitutionis(attinente al significato e all'esistenza della legge in astratto) o del ius ligatoris (attinente alla ricostruzione del fatto e alla relativa applicazione della legge).
Gli antichi romani non avevano tecnicamente (ché la cosa era incompatibile con la litis contestatio, anche se si è fatta un po' questione con riferimento alla cognitio extra ordinem) la nostra cultura dei mezzi e forme d'impugnazione, cui il tema qui attiene; le cui origini possono essere individuate invece nel Medioevo, a datare da certi capitoli scritti dai "barbari" d'italico insediamento (si pensi all'Editto longobardo), laddove si prevedeva la possibilità, per chiunque si ritenesse non soddisfatto dell'esito del giudizio (condizione questa severamente richiesta) per denegata giustizia o per altro motivo, di un appello o ricorso (reclamatio) straordinario al re.
Ed è qui, con riferimento al destinatario di quel reclamo, che si rivela un aspetto essenziale della cosa, che è il momento pubblico ed autoritativo del processo o se si preferisce la ragione politica della giurisdizione. Volendo approfondire in tal senso, si può guardare, come sempre ebbe a fare il Calasso e altri fecero dopo di lui, alla riforma amministrativa carolingia, laddove la riorganizzazione della giustizia (si pensi fra l'altro al ruolo ispettivo e di coordinamento dei missi dominici) si rese necessaria a causa della "territorialità" e "personalità" del diritto, per quanto queste (elementi giuridicamente progressivi e non) ostassero al progetto di un (nuovo, ambizioso) ordinamento unitario quale quello dell'impero.
Presso quella riforma, l'introduzione di una cultura processuale dei mezzi d'impugnazione corrisponde con l'istituzione di una giustizia del palatium, organo supremo di giudizio presieduto dal re in persona (o da un suo comes) nella sua qualità di sacer imperator e custos fidei (custode cioè - concetto interessante e non solo per quell'epoca - della pubblica fede) e di un iudicium aequitatis, ovvero con una consacrazione giurisdizionale - in senso cristiano direi e comunque religioso - dell'autorità politica; forma per quell'epoca più organizzata e accentratrice di ordinamento. Laddove rispetto all'editto di Rotari vi erano una simiglianza e una differenza: se in entrambi i casi, a causa sempre di influssi religiosi, la giustizia non si riduceva al decisum del giudice ordinario, diversamente dal re longobardo che interveniva per fare rispettare le legge, l'imperatore franco interveniva ponendosi al di sopra della legge quale lex mundana: i reclami al re e imperatore erano motivati non dalla cattiva applicazione della legge ma anche, determinando istituzionalmente la supremazia della jurisdictio, dall'applicazione della legge in quanto "cattiva" legge.
La storia quindi insegna, con riferimento a un periodo che precede di circa mille anni la Rivoluzione francese, che l'evoluzione dei mezzi e forme d'impugnazione si lega ai pubblici poteri - anche necessariamente potere inteso in senso religioso -: la differenza rispetto all'età moderna, rivoluzionaria e postrivoluzionaria, è sì nel rapporto fra autorità e libertà (a volerci immettere in categorie di sapore crociano) ma meglio fra modelli di autorità: soggettiva e personificata quella del re e/o imperatore, la cui funzione di supremo giudice che riconducesse la controversia ad aequitatem, ovvero ristabilendo l'armonia fra giustizia umana e giustizia divina, lex mundana e lex Dei (in profonda concordia con il diritto canonico, laddove l'aequitas fu ed è nell'ordinamento ma fuori di esso) sarebbe valsa ad avvicinare re-e-giustizia a Dio-e-giustizia; oggettiva l'altra, moderna, sganciata dal potere religioso e piuttosto legata alla generalità, astrattezza e autorità della legge. Laddove nell'un caso e nell'altro bisognasse assicurare alla giustizia un respiro e una probabilità per così dire popolari.
Non basta insomma, per capire, rifarsi al processo in quanto tale, nel senso mettiamo che non è ragionevole (l'opinione è ancora del Satta), per comprendere bene il perché e la natura del nostro istituto, muovere dalla distinzione tra fatto e diritto; e invece bisogna avere presente la crescita della dimensione costituzionale del diritto oggettivo; perché la politica evolve giuridicamente in un certo modo.
Con riferimento alla idea generale di Giustizia prima ancora che a quella di cassazione - ma certo con attinenza anche a questa - già l'uscita dal medioevo presenta alcune importanti acquisizioni: che l'ordine giuridico come anche ordinamento giudiziario lo si costruisce per contrasto-e-superamento di certa "naturale" territorialità e/o personalità del diritto; che come esiste una più alta e straordinaria istanza morale di giustizia (per cui si chieda una giustizia giusta, o più morale) così deve esservi "sulla terra" e dunque sotto un profilo più propriamente etico, un giudizio superiore ai giudici del fatto, ovvero supremo, tale da porsi al di sopra delle teste degli uomini; dovendo e potendo tale grado di giudizio essere amministrato (laddove il re quale rappresentante di Dio in terra sia rex-judex, al quale solo i giudici sono assoggettati). Potendo costituire così l'impugnazione, se orientata, uno strumento di soddisfazione per tutti, generalizzato, che alla fine valga, potendo rendere giustizia a chi non ne abbia avuta, a legare trono e altare, popolo e sovrano.
Il medioevo giuridico insegna insomma che processo, ordinamento e potere (e qui non prendiamo in esame la causalità economica) vanno pensati unitariamente; ma a questo punto va considerato come rispetto a quella epoca (oscura forse ma creativa), con attinenza alla nostra idea, sarebbero cambiati i termini del rapporto. Non si può mai escludere il valore del processo nella formazione stessa o razionalizzazione degli ordinamenti e anche delle forme di Stato e/o governo, laddove si pongono livelli diversi di eticità; ma solo il cambiamento della storia politica e istituzionale avrebbe consentito a quella idea di manifestarsi e affermarsi.
Presumibilmente la riforma dell'amministrazione e giudiziaria di Carlo Magno era per la sua epoca la migliore delle riforme possibili; ma questo non esclude ed anzi qualifica meglio il fatto: che l'evoluzione del processo sarebbe proseguita, affinandosi, e che la figura sacra del re e/o imperatore, e parimenti prima l'opera dei suoi giudici e poi in generale delle corti, sarebbero potute risultare alla fine ostili e allo Stato moderno e alla stessa idea di Giustizia, la quale a sua volta sotto il profilo delle fonti si sarebbe dovuta spersonalizzare e deterritorializzare politicamente a vantaggio dell'autorità della legge, del nuovo spirito nazionale e dunque di diversamente definiti profili istituzionali.
A voler essere più precisi, peraltro, bisogna ammettere che la ricerca del precedente può condurre, con riferimento a periodi pre-rivoluzionari, a scoperte interessanti, che possono dare vita a contrastanti scuole di pensiero. Si può andare così con la memoria a quel Consilium residens di antica stagione piemontese (era il 1355), tribunale di seconda istanza successivamente trasformato in Senato e contro i cui verdetti era ammessa una supplica per revisione al Sovrano (editti di Emanuele Filiberto del gennaio 1571); procedura poi soppiantata (nel 1799) dalla introduzione dell'ordinamento francese ma nella quale qualcuno (G.F. Ricci, La Cassazione piemontese) ha voluto ravvisare una prefigurazione specifica della nostra Cassazione e quindi la prova di una origine in qualche modo anche italiana dell'attuale alto organo di giudizio. O si può ricordare il Conseil des parties, nato nella Francia del tardo cinquecento (era il 1578) per derivazione dal Conseil du roi (l'altra importante fu il Conseil d'Etat) cui competeva annullare le decisioni che contrastassero con le ordinanze regie. O si può considerare più in generale come a questo o quell'organo senatoriale, variandone i criteri di composizione e la natura, potesse sempre essere assegnato il compito di pronunciarsi sui giudizi.
Sono preconizzazioni, indubbiamente; ma è questo essere e non essere, se esse si manifestano dopo e non prima, che valorizza e qualifica la storia delle idee. Resta quindi ferma nella sostanza la valutazione comunemente espressa; per cui ad esempio che (come taluno ebbe a sostenere nel 1789-90) un eventuale tribunale rivoluzionario di cassazione non avrebbe innovato rispetto al Conseil des parties era un'argomentazione che non stava in piedi; e insomma nel medioevo e nella prima età moderna, pur avendo le monarchie assolute lasciato trasparire l'importanza di un organo che salvaguardasse la legge, tecnicamente e per un difetto di maturazione dei processi storici non si poteva parlare propriamente di cassazione. E si sarebbe dovuti giungere all'età moderna inoltrata, con le trasformazioni del quadro istituzionale dei pubblici poteri ma soprattutto con il nuovo spirito che l'avrebbe contraddistinta, per ottenere una spiegazione storica più completa del fenomeno.
Dunque la questione decisiva del "perché la Cassazione?" si pone veramente e assume un senso preciso nel passaggio all'età delle rivoluzioni borghesi ed è significativo sotto tale aspetto capire ad esempio il problema che si trovò ad affrontare l'illuminato ministro Tanucci nel porre mano alla Riforma della giustizia nel regno di Napoli (1774): il fenomeno dell'eccesso ovvero della troppa libertà delle corti nella interpretazione (mali peraltro rilevati dal Muratori e dal Filangieri; e ai quali non doveva essere estraneo l'influsso della opinio doctorum, per cui era la dottrina dei giureconsulti a fare il processo) rispetto alla legge; problema che sarebbe stato riproposto nel 1790 dall'avvocato Chabroux, di cui si dirà.
All'epoca del Tanucci (il quale nella sua riforma faceva divieto di esegesi che non fosse letterale o analogica) si era alle soglie della nascita dello Stato di diritto, inteso almeno nella sua affermazione rivoluzionaria nell'Europa continentale, laddove ciò che non era riuscito con piena efficacia alla raison di ministri illuminati e d'en haut, lo avrebbe fatto la violenza politica, quella della ghigliottina, in nome del popolo o se si preferisce del terzo stato, per dire della nazione, dei diritti universali dell'uomo ecc.
Ovvero: l'idea di cassazione, di cui è sempre bene anche cogliere il parallelismo con quella di codificazione, si afferma non prima che le costituzioni della Rivoluzione francese, inserendosi nel contesto di uno Stato moderno accentrato qual era la monarchia d'oltralpe del secolo diciottesimo, riconoscessero espressamente e con puntualità il ruolo di supporto alla rivoluzione, quale sentinella della legge (o del legislatore; ma l'espressione si sa che non era inedita), del Tribunal de cassation (decreto del 27 novembre 1790). Essa si afferma cioè alla luce della identificazione dello ésprit rivoluzionario con la necessità delle costituzioni scritte e con il principio di legalità (ma quella di un centralismo democratico fattivo, congeniale a un riformismo aspro, forse crudele e a un reale cambiamento) e in questo vale a fissare una volta per tutte la valenza politica di quella idea, nel senso che non è alla suprema autorità quale giudice che bisogna guardare per capire ma alla potestà in quanto tale di annullare una sentenza in nome della legge e non già riformarla nell'interesse delle parti.

Storicamente dunque - quasi fosse la nomenclatura a decidere - la cassazione quale cassazione risulta essere idea ben moderna e si afferma in Francia, in quel clima susseguente all''89, nel quale rifulse la luce (vera, falsa, accecante; ma qui è il nocciolo storico ...) dell'utopia cosiddetta della legge. Allorquando della legge perché espressione della "volontà generale" si volle presumere l'onnipotenza, tale per cui essa esaurirebbe in sé ogni realtà e significato e insomma avrebbe tutt'altro che bisogno della (libera, equitativa) interpretazione.
Ma, come detto, se le cose sono andate proprio così è perché quella presunzione fu politica, legata alla volontà politica e a certe condizioni storiche; laddove - mettiamo - i cahiers de doléances per essere stati rivalutati nel settecento dopo secoli di quiescenza degli "stati", non potevano non valorizzare e rendere esplosivo - ma la domanda politica popolare era rivolta all'autorità quale fonte in generale di resa giustizia - il legame fra tale istanza (giuridica, morale) e le norme imperative, che superassero il giudizio del fatto. La quale idea, soprattutto in termini popolari, avrebbe così preso la strada della legge a discapito del potere giurisdizionale (del re e delle corti). Sarebbe consistita piuttosto nell'annullamento delle sentenze nell'interesse della legge che non nella costruzione della giurisprudenza.
In siffatto contesto i membri della Cassazione "rivoluzionaria" non sarebbero mai potuti essere definiti ufficialmente "giudici", essere inseriti cioè nel circolo della giurisdizione, altrimenti (concetto espresso appunto da Charles Chabroux nel 1790) avrebbero "voluto giudicare"; sarebbe stato preferibile invece parlare di "ispettori di giustizia", non essendo richiesto a costoro di conoscere del "fondo delle questioni"; laddove sembra essere proprio il compito prioritario dell'annullamento e cioè della cassazione a spiegare il non dover giudicare nel merito; ovvero laddove per la natura della cosa finché avessero giudicato del fatto, i giudici sarebbero stati politicamente avversi alle leggi e dunque alla rivoluzione.
E già qui s'intravvede un po', a voler fissare la eccezionalità del momento, come si potesse anche sfiorare l'assurdo: se non vi è bisogno infatti della esegesi o è sufficiente, in presenza di una legge chiara, inequivocabile e di agevole applicazione (tale sarebbe stato poi ritenuto dalla école de l'exegèse ed in linea con il principio della completezza dell'ordinamentoil code Napoléon), una interpretazione lineare, che bisogno vi è allora del giudice quanto meno nella sua accezione tradizionale? In altri termini, l'interpretazione letterale è forse una condizione di non interpretazione? Pensiero ragionevole e non, decisamente investito dalla retorica rivoluzionaria; perché invece che dell'esegesi vi sia sempre bisogno lo prova ciò che dovrebbe provare il contrario: così la teoria della "interpretazione autentica", già illustrata da Thomas Hobbes nel Leviatano, come il paradosso che si racchiude nella locuzione "interpretazione autentica": norma sì ma ammissione dell'esigenza insopprimibile della interpretazione; come la nascita stessa, perché si desse attuazione alla nostra idea, di una figura di giudice che essendo tale ma qualcosa di diverso rispetto al tradizionale giudice del fatto, garantisse la legge formale nella sua applicazione e che in ciò non fosse chiamato a sindacare nel merito (principio cosiddetto di "negatività" del giudizio di cassazione) né dovesse sostituirsi a chi fosse chiamato a fare le leggi. Il problema che si sarebbe dunque posto - ma lo sarebbe stato necessariamente di architettura costituzionale ché altrimenti non si sarebbero potuti fissare certi risultati storici - era di natura e collocazione rispetto all'ordine (e ordinamento) giudiziario tanto quanto rispetto a quello costituzionale, di un organo Cassazione, ovvero di un giudice "diverso" dai giudici. Laddove il ragionamento dimostra che a nessun tribunale per doverne applicare le determinazioni sarebbe stato dato essere legislatore.

Il carattere politico dell'origine rivoluzionaria, con il subito previsto resoconto annuale al Corpo legislativo e il potere di decretazione da parte di quest'ultimo (con "[...] decreto declaratorio della legge, al quale il t.d.c. sarà tenuto a conformarsi": costituzione del 3 settembre 1791, tit. III, cap. V, art. 21) in caso di duplice cassazione della medesima sentenza, può identificarsi, non solo psicologicamente, con la diffidenza storica nei confronti del giudice per quanto questi rappresentasse i vecchi privilegi. E si sottintende proprio in questo, oltre questo, un modo diverso - più politicizzato, per dire più vicino al sentimento della res publica e della nazione - di essere giudice ("censori nazionali" definiva i membri dell'Organo il progetto costituzionale girondino del 1793: sez. IV, art. 1-14; e comunque le costituzioni francesi - a voler essere pedanti - nel loro susseguirsi tesero inizialmente ad inquadrare la Cassazione sì nel potere giudiziario, ma, poiché chiamato a decidere disunendo diritto e fatto, quale organo esterno a detto potere).
L'idea, consolidato in ben altra temperie politica il suo carattere politico, fu tale da non dissolversi al dissolversi delle "passioni" rivoluzionarie: la legislazione napoleonica, con senatoconsulto del 18 maggio 1803 (ma già prima nella sostanza con s.c. del 4 agosto 1802 - art. 80, 82, 84, 85 -: innovazione in quanto alla nomina dei membri della Cassazione, ora non più assembleare ma senatoriale - art. 85 -, con istituzione di un "Gran giudice" ministro della giustizia, dotato di poteri di sanzione nei confronti dei membri del supremo consesso), avrebbe svolto un'opera di "normalizzazione", sostituendo a quel Tribunale una Cour de cassation (art. 36); la quale sarebbe sopravvissuta sino ai nostri giorni conservando attribuzioni già definite nella costituzione del 3 settembre 1791 (tit. III, cap. V, art. 19-22 e 23). In altre parole: sarebbe stato mai dato a Robespierre di oltrepassare Hobbes, ovvero a Hobbes di snaturare il suo pensiero? E al diritto del giudice di oltrepassare il diritto del legislatore? Tanto quanto al legislatore di fare a meno del giudice?
È bene dunque aggiungere subito a quanto detto: la Cassazione pose e definì in un certo modo il rapporto storicamente nuovo perché costituzionale, laddove si mettesse in dubbio la forma Stato, fra legislativo e giudiziario. Mostrando nella sua evoluzione come il diritto abbia fronte e forse natura contrastanti, contraddittori. Essendo esso, anche nelle sue ripercussioni pubblicistiche, ora norma ora giudizio.
I giudici, si diceva, erano di fatto e per consuetudine politicamente avversi alle leggi. Vi è dunque un profilo esplicativo della cosa decisamente interessante e cioè il valore che la Cassazione venne ad assumere necessariamente in un progetto (o super-progetto) costituzionale che essa contribuì a strutturare: la moderna separazione dei poteri, ché è lì che si giocava la posta per passare a nuove forme di Stato; necessità di produrre un organo costituzionalmente rilevante che cambiasse i rapporti politico-istituzionali e garantisse i nuovi equilibri. E che l'origine sotto questo riguardo fosse tecnicamente, giuridicamente rigorosa, lo dimostrano l'intensità e la violenza di certi momenti storici.

L'idea di cassazione, mostrando la sua forza, così trovava la sua affermazione e veniva esportata, non però dovunque. Dalla storia di Francia a quella tedesca e austro-ungarica (laddove s'instaurò il regime della Revision o dei tre gradi di giudizio per cui si curavano più i diritti della parte che non la stretta legittimità), a quella iberica, a quella d'Italia, a quella francese profondamente legata e che meglio di altre ne prova l'influenza e il valore - pur facendo salva almeno in parte l'ipotesi di vie autonome e parallele (è il caso della Cassazione piemontese, di cui si è detto) nella nascita di quell'organo supremo.
Nella trasmigrazione dalle terre d'oltralpe la Cassazione, trascorsa la fase pur incisiva dei regimi napoleonici (repubbliche cisalpina, ligure, partenopea) e della Restaurazione - questa la lasciò in piedi solo a Napoli -, da organo della giurisdizione ma esterno all'ordinamento giudiziario diveniva organo pienamente giurisdizionale, e questo d'altronde, almeno nell'opinione del Satta, non poteva non esserne il naturale destino.
Nel regno di Sardegna, laddove Carlo Alberto aveva istituito con regio editto del 1847 un Magistrato di Cassazione, sul terreno del diritto positivo fu il codice di procedura civile del 1859 a prevedere espressamente e disciplinare (ma non istituendo e piuttosto ratificando ciò che già esisteva e avveniva) le ipotesi di ricorso, focalizzandolo negli articoli dal 586 al 588 e indicandone essenzialmente due motivi: la formale violazione e la falsa applicazione della legge.
In séguito, con l'unificazione nazionale, rimasero in piedi in Italia quattro corti di legittimità, rispettivamente a Torino, Firenze, Napoli e Palermo, laddove la competenza territoriale succedeva a quella dei singoli stati preunitari; alle quali poi si affiancò (con legge 12 dicembre 1875) la Cassazione romana, con speciali competenze e giurisdizione esclusiva per certa materia su tutto il territorio nazionale. Laddove le giurisdizioni, coadiuvate e distribuite anche in tribunali supremi (Parma, Piacenza, Guastalla e Modena), apparivano in certo senso intrecciate.
Come chiedeva però l'unità nazionale, fra il 1877 e il 1907 alcune leggi mirarono a rafforzare i poteri della Cassazione romana, estendendoli ai conflitti di attribuzioni e alla cognizione dei ricorsi contro le decisioni delle giurisdizioni speciali per incompetenza o eccesso di potere (legge del 31 marzo 1877); abolendo le singole sparse sezioni penali che furono unificate e sussunte in quella romana (legge del 6 dicembre 1888); statuendo la unicità delle sezioni unite civili e la esclusiva competenza in tema di ricorsi contro le decisioni del Consiglio di Stato per difetto assoluto di giurisdizione (legge del 7 marzo 1907).
Nel 1923 le quattro cassazioni furono riunite tutte definitivamente in una unica Corte nazionale. Nel 1941 l'ordinamento giudiziario (regio decreto n. 12 del 30 gennaio) all'articolo 65, definì attribuzioni e composizione del supremo consesso.
Nella nostra Carta fondamentale, infine, della Corte di cassazione non si dà conto se non nell'articolo 111, con riferimento ai casi salienti di ricorso, dunque comunque sotto il profilo processuale. Non se ne parla - mettiamo - come si fa con il Consiglio di Stato o con il Consiglio superiore della magistratura, e cioè sotto un profilo istituzionale.
Questo, in presenza di un articolo 102 (titolo IV) che così recita: "La funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari". Quasi perpetuando una interpretazione parziale o ambivalente di una idea, che la storia vuole rilevante.

Fin qui brevemente la storia di una idea, che nel nostro racconto è sostanzialmente francese e italiana e dunque non ha tenuto conto della Revision tedesca. E deve trattarsi necessariamente della storia parziale della idea di Giustizia - o idea di una Suprema Corte - se non vogliamo enfatizzare oltre la sua specificità quella di cassazione.
Ma in tutto questo che cosa è accaduto alla Cassazione? Essa indubbiamente ha preso progressivamente corpo, se vogliamo considerare la riforma carolingia come una origine significativa e l'età napoleonica e quella della Restaurazione come indici dell'acquisizione di una assetto definitivo. Ma mi domando a questo punto: quanto girondinismo e/o giacobinismo sarebbero rimasti di quella realizzazione?
Sembra ora, a voler guardare al diritto positivo, che la sua storia sia legata a questioni per lo più processuali (ad esempio da noi quella del giudizio di rinvio); ma l'idea è composta di processo e di istituzione; la storia almeno rivela questo.
L'età carolingia non saprei dire se valorizza maggiormente il profilo istituzionale o quello processuale; essa comunque istituisce un legame qualitativo e di necessità. Le età rivoluzionaria e napoleonica sembrano valorizzare maggiormente il momento istituzionale e cioè politico della cosa. Essendosi sempre manifestata la necessità, a prescindere dalle forme di Stato, che la sovranità sia garantita mediante un giudice o mediante un guardiano del giudice. Che insomma il giudizio, la cui pubblica validità non fosse affidata a testimoni e chiusa in un patto, venisse ad inscriversi, aprendo al "pubblico", in una sorta di principio di non definitività. Il lato politico dunque è importante ed è politicamente - ma proprio in questo comprendendo sino in fondo il valore del processo - che bisogna comunque garantire la legittimità. Naturalmente dico queste cose e m'interrogo pensando al fatto che i tempi cambiano, a fronte dei grandi cambiamenti della economia. E comunque perché la storia è storia e spesso non vuole aggiunte.
Inizialmente si parlava di conoscenza storica; ma essa emerge proprio dalla sua acquisizione. Il buon rischio è al giorno d'oggi che l'aspetto istituzionale cui il rito non può non riferirsi, sia più insito nel fatto ed inespresso che non formalizzato, ad pompam.
Sembra in altre parole, al di là della evoluzione e delle stesse soluzioni organizzative, che il dualismo che caratterizza la nostra idea resti sempre in piedi. O forse che così dev'essere, tranne che in periodi straordinari?