Sull'applicazione dell'articolo 90 comma 1 della Costituzione

Recita l'art. 90 della nostra Legge fondamentale, nel suo primo paragrafo: "Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione".

Quindi, nel § 2, esso così prosegue: "In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri" (la disciplina del procedimento è quella poi espressa dagli art. 12, 13 e 15 legge cost. 11 marzo 1953 n. 1 - nel testo modificato dalla legge cost. 16 gennaio 1989 n. 1 - e sarà il Parlamento, secondo il canone classico dell' impeachment , a dover giudicare) .

Quid iuris dunque con riguardo alle responsabilità presidenziali che non siano riferibili a reati attinenti alla carica? Anche a voler fare chiarezza in modo organico per quanto attiene alla figura e al ruolo della più alta carica dello Stato?

In attesa di una soddisfacente configurazione - ma necessitava e necessita la prassi - delle ipotesi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione, un primo problema, dovuto a certo quale silenzio o lacunosità del diritto oggettivo, è quello di appurare, ai fini di una esclusione del Capo dello Stato dalla giurisdizione ordinaria, se e quali fra gli atti che egli possa avere compiuti siano catalogabili e quali non come funzionali , inerenti cioè al munus publicum (criterio cosiddetto del "nesso funzionale", invalso nella nostra giurisprudenza segnatamente con riferimento ai conflitti relativi all'art. 68 cost.).

Sennonché il problema, per venire a toccare sul vivo un principio-cardine dei moderni ordinamenti quale quello del checks and balances , risulta essere legato fortemente all'altro, dei rapporti interorganici - ovvero "giuridicizzazione" dei rapporti fra organi costituzionali dello Stato - ovvero: se e/o entro quali limiti sia costituzionalmente legittimo che il giudice ordinario, essendo venuto in possesso di determinati elementi probatori o essendo investito della questione, indaghi, proceda e deliberi in merito - con l'importante corredo di una domanda: se la responsabilità riconosciuta nel caso concreto possa essere solo penale o non piuttosto anche civile e amministrativa.

Prima o poi, come suol dirsi, le cose sarebbero venute a galla. E una risposta "storica" - che va letta nel suo nesso con i decisa della Cassazione n. 8733 e 8734 del 27 giugno 2000 - è quella fornita dalla sentenza costituzionale 26 maggio 2004 n. 154. La Corte , investita di questione riguardante alcune esternazioni di un ex Presidente della Repubblica - ricorrente per conflitto di attribuzione con riferimento alle due nominate sentenze, per non essere stata in esse riconosciuta la sua irresponsabilità civile in relazione a certe frasi (di per sé stesse diffamatorie) pronunciate all'indirizzo di due senatori -, dichiarando il ricorso in parte non fondato, in parte inammissibile, ha così argomentato: " Non può accogliersi, in primo luogo, la tesi secondo cui l'autorità giudiziaria ordinaria difetterebbe radicalmente di competenza giurisdizionale in ordine alla qualificazione degli atti del Presidente della Repubblica, al fine di verificare l'applicabilità o meno della clausola di esclusione della responsabilità di cui all'art. 90 della Costituzione.

Tale clausola non fa che recare, infatti, una eccezione alla regola della responsabilità di ciascuno per gli atti compiuti in violazione di diritti altrui. Questa regola, che discende dallo stesso principio di legalità e di giustiziabilità dei diritti, e che per i pubblici funzionari è espressamente ribadita dall'art. 28 della Costituzione, col rinvio alle 'leggi penali, civili e amministrative' caso per caso applicabili, fonda la generale competenza delle autorità giudiziarie all'accertamento dei presupposti della responsabilità e alla pronuncia delle eventuali misure sanzionatorie, restitutorie o risarcitorie conseguenti.

È pertanto alla stessa autorità giudiziaria che spetta, in prima istanza, decidere circa l'applicabilità in concreto, in rapporto alle circostanze del fatto, della clausola eccezionale di esclusione della responsabilità. Se nel decidere in proposito l'autorità giudiziaria venisse ad apprezzare erroneamente la portata della clausola o a negare ad essa erroneamente applicazione, con conseguente lesione della prerogativa e dunque dell'attribuzione presidenziale, oltre ai normali rimedi apprestati dagli istituti che consentono il controllo sulle decisioni giudiziarie ad opera di altre istanze pure giudiziarie, varrà il rimedio del conflitto di attribuzioni davanti a questa Corte. Ma non può essere negata la competenza dell'autorità giudiziaria a pronunciarsi, nell'esercizio della sua generale funzione di applicazione delle norme, ivi comprese quelle della Costituzione".

Ovvero: "La competenza di questa Corte a risolvere i conflitti di attribuzione non può sostituirsi a quella del giudice comune per l'accertamento in concreto dell'applicabilità della clausola di esclusione della responsabilità. Infatti la giurisdizione costituzionale sui conflitti non è istituto che sostituisca l'esercizio della funzione giurisdizionale là dove siano in gioco diritti dei soggetti di cui si chieda l'accertamento e il ristoro (e l'azione di responsabilità integra tipicamente tale fattispecie), ma vale solo a restaurare la corretta osservanza delle norme costituzionali nei casi in cui, in concreto, a causa di un cattivo esercizio della funzione giurisdizionale, questa abbia dato luogo ad una illegittima menomazione delle attribuzioni costituzionali di un altro potere.

Nemmeno potrebbe ipotizzarsi un qualsiasi effetto inibitorio dell'esplicarsi dell'esercizio della funzione giurisdizionale, collegabile alla semplice affermazione, da parte di colui la cui responsabilità viene evocata in giudizio, della applicabilità della prerogativa, stante la non configurabilità di un potere di definizione unilaterale, in causa propria, dei limiti della propria responsabilità.

La garanzia del rispetto della norma costituzionale, anche nei confronti di eventuali erronee applicazioni da parte dell'autorità giudiziaria, non sta nell'esclusione a priori della competenza di questa - che verrebbe in pratica a configurare una esenzione senza limiti dalla giurisdizione e un privilegio personale privo di fondamento costituzionale - ma nella possibilità (esplicitamente riconosciuta, del resto, anche dalle pronunce impugnate) di sollevare conflitto di attribuzioni contro le determinazioni dell'autorità giudiziaria".

Proposizioni queste con le quali il giudice delle leggi veniva a confermare quanto già espresso dal giudice di legittimità nelle sentenze n. 8733 e 8734, cit., le quali concordavano, venendo così a "restringere" il cd. "potere di esternazione", nell'affermare che in quanto a competenze "L 'autorità giudiziaria ha il potere di accertare se l'atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale, salva la facoltà per il Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzione per menomazione".

Dunque con riferimento all'ambito applicativo della cosiddetta "clausola d'irresponsabilità" vengono in rilievo due gradi e/o forme di giudizio: uno di prima istanza, di competenza dell'autorità giudiziaria ordinaria - il cui apprezzamento in tema è nella natura stessa della cosa e cioè inerisce all'esercizio della funzione stessa - e, con direzione inversa rispetto a quella sperimentata in relazione all'art. 68 cost. - un ricorso per conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, la quale non è chiamata a sostituirsi all'a.g.o. ma a svolgere un'azione di riequilibrio, consistente nel valutare se vi sia stato o meno un cattivo esercizio della funzione giurisdizionale. A essa Corte cioè non competerebbe stabilire se il Capo dello Stato abbia commesso atti che gli siano imputati in ordine alle sue funzioni ma se l'a.g.o., cui va riconosciuto il potere d'indagine, abbia travalicato le proprie attribuzioni provocando, come dice la sentenza n. 154 in esame, una "illegittima menomazione delle attribuzioni [...] di un altro potere". E se non dovrà essere la Corte costituzionale - secondo la sua stessa giurisprudenza - a pronunciarsi, sostituendosi alla a.g.o., sul carattere funzionale o non di atti compiuti dal Capo dello Stato, questo sarà poiché ogni indagine giudiziaria muove al suo nascere da un principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, ponendosi la valutazione sull'applicabilità della cd. "clausola di esclusione", ovvero su una eccezione a quel principio, come atto successivo sia pure contestuale.

Ma già qui è ragionevole porsi alcuni quesiti: quali ad esempio i riflessi di una lacuna dell'ordinamento (che li riguardi) sui rapporti fra i poteri dello Stato? E anche: la Corte costituzionale, poiché il conflitto è ammissibile in base a una eccezione di cattiva giurisdizione, non verrebbe forse in qualche modo a screditare quantomeno presso il sentire giuridico comune e/o mediatico la stessa funzione giurisdizionale, rischiando così fra l'altro di danneggiare l'immagine stessa di un'amministrazione pubblica? Non è come si potesse porre nel dubbio la legittimità di una qualsiasi indagine giudiziaria, riconducendo la soluzione di contrasti fra poteri dello Stato in un solco pre- o extra-costituzionale? Il che non onorerebbe per così dire la storia della materia e in questo lo spirito stesso delle moderne costituzioni "lunghe", con il loro carico di garanzie per i più deboli? Ma ancor prima: quale il rapporto fra le possibilità effettive d'istruire un procedimento di impeachment e la legittimità della distinzione fra atti funzionali ed extrafunzionali?

Recentemente, la questione dei conflitti fra autorità giudiziaria e Presidenza della Repubblica si è riproposta nel quadro della inchiesta condotta dalla Procura generale di Palermo sulle cosiddette "intese" tra mafia e Stato, risalenti alla prima metà degli anni novanta (periodo cd. stragista). Nel cui ambito sono emerse intercettazioni interessanti, sia pure indirettamente per essere state effettuate su utenza di altra persona, indagata, il Capo dello Stato.

La Procura siciliana, richiestane dalla stessa Presidenza, faceva sapere che avendo essa "già valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo dello Stato non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l'osservanza delle formalità di legge"; ma pochi giorni dopo, in una lettera a un importante quotidiano nazionale, il Procuratore di Palermo precisava che "in tali casi alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del giudice per le indagini preliminari, sentite le parti". Che dunque alla distruzione di quelle risultanze probatorie (laddove si parlava di "conversazione legittimamente ascoltata e registrata") si venisse a porre qualche 'condizione' di troppo?

A quel punto il Presidente della Repubblica mediante decreto affidava all'Avvocato generale dello Stato la sua rappresentanza nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale, presso la quale si sollevava (e se ne potrà discutere a lungo l'opportunità) conflitto di attribuzione.

Nel decreto, dopo avere osservato che "comportano lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione, l'avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione (investigativa o processuale), la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento e l'intento di attivare una procedura camerale che - anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto - aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte", si citano, a sostegno, gli articoli 90 della Costituzione e 7 della legge 5 giugno 1989 n. 219, asserendo che "le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette od occasionali, sono invece da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione". Ma, che tipo di reazione era mai questa, che interveniva nemmeno a giudizio iniziato, forzando un po' le cose e riconducendo la questione al dogma della assoluta insindacabilità degli atti presidenziali, disconoscendo finanche una qualsiasi legittima procedura di distruzione di risultanze probatorie (cfr. art. 269 c.p.p.)?

L'art. 7 della legge n. 219 (Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione) al numero 2 dice: " Devono in ogni caso essere deliberati dal comitato [ previsto dall'art. 7 legge cost. n. 1 del 1989 per i reati ministeriali] i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione, ovvero perquisizioni personali o domiciliari, nonché quelli che applicano misure cautelari limitative della libertà personale nei confronti degli inquisiti" e al numero 3 aggiunge: "Nei confronti del Presidente della Repubblica non possono essere adottati i provvedimenti indicati nel comma 2 se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione della carica". E se il richiamo all'art. 7 può apparire confacente, esso lo è relativamente alla sua combinazione con l'art. 90 della Costituzione. Una norma di prevenzione direi, la prima, limitata a una casistica ben definita, cui si vuole conferire una efficacia totalitaria.

Che cosa è cambiato dunque rispetto a quanto emerge dal "caso Cossiga"?

Affermava sostanzialmente anni or sono l'allora senatore a vita: l'a.g.o. non ha l'autorità per dire se questo o quell'atto presidenziale è "funzionale" o non lo è, perché tutti gli atti presidenziali in quanto tali sono da considerarsi funzionali - venendo a identificare in questo modo persona fisica e organo costituzionale (ovvero, secondo la sentenza della Corte di appello di Roma, poi cassata con rinvio dalla sentenza n. 8733, cit., " per il solo fatto della continuità del munus [...] ogni manifestazione di pensiero della persona fisica sia [è] anche manifestazione di pensiero del titolare dell'organo e quindi [...] esercizio di funzioni" ).

La disposizione costituzionale non prevede (ma può solo fare intendere lasciandone aperta la possibilità) che un'autorità giusdicente sia chiamata a distinguere tra atti e atti e dunque Cossiga astrattamente avrebbe potuto avere tanta ragione quanta poteva averne la Cassazione. La sua tesi sarebbe plausibile, se non fosse che (1) essa sembra non discostarsi molto dallo spirito e dalla lettera dello statuto albertino, per il cui art. 4 l a persona del re era " sacra ed inviolabile" e dunque - si può pensare in linea con il motto: the King can do no wrong - l'irresponsabilità del monarca, riguardando i "crimini di alto tradimento e di attentato alla sicurezza dello Stato" i soli ministri, assorbiva qualsiasi ipotesi di reato costituzionale; che (2) i costituenti, come provato, avevano presente ma decisero di non darvi corso normativamente (Tosato) il problema del rapporto fra atti funzionali ed extra-funzionali e che (3) la sentenza n. 154, legittimando la pronuncia n. 8734 della Cassazione ( " Ciò che non è esatto è che il Presidente possa decidere in astratto quali siano le sue funzioni"), parla di " non configurabilità di un potere di definizione unilaterale, in causa propria, dei limiti della propria responsabilità". Se non fosse insomma che l'intervento interpretativo della Consulta, quale diritto giurisprudenziale, vale a compensare istituzionalmente una lacuna normativa e che dunque sotto tale profilo - come anche confermato sul conto dell'art. 68 cost. - non può non prevalere la lezione della Consulta.

Dice invece il recente "decreto Napolitano" (rinverdendo il tenore della interpellanza parlamentare presentata nel febbraio 1997 dal senatore Cossiga a difesa delle prerogative del Capo dello Stato Scalfaro in occasione della intercettazione di una conversazione fra costui e l'amministratore delegato della Banca popolare di Novara in tema di ricambio dei vertici dell'istituto) : l'a.g.o. non può indagare sul Presidente della Repubblica con strumenti probatori il cui uso nei confronti della suprema carica dello Stato è vietato, potendo essere autorizzato solo a certe condizioni e solo dal tribunale o collegio giudicante costituito ad hoc per processare il Presidente per reati inerenti alla carica. I due casi sono collegati, pure riguardando l'art. 7 ipotesi di reato costituzionale, non questioni di giustizia ordinaria, per quanto invece rileva nel "caso Cossiga"; ma unica essendo in fondo la storia, trattandosi di stabilire quale debba essere ragionevolmente in regime repubblicano il potere della Giustizia nei confronti del Capo dello Stato.

Può essere forse - si chiederebbe oziosamente - che i riferimenti normativi contenuti nel decreto Napolitano non siano impeccabili, che il decreto pensi solo ai reati presidenziali e che per qualsiasi questione di giustizia ordinaria si ammetta per implicito la liceità delle registrazioni? O può essere che, pur non essendo impeccabili, quei riferimenti considerino il divieto ex art. 7 legge n. 219 estensibile anche ai casi di giustizia ordinaria, con un uso improbabile dell'analogia? O non può essere piuttosto che essi siano esatti per ciò: che si teme l' impeachment e che si voglia far intendere allo stesso tempo - non so con quanta forza argomentativa, in uno Stato di diritto - che mai il Presidente della Repubblica, per il prestigio della carica, dev'essere assoggettato a intercettazione? Laddove però se si può sostenere che la sospensione del Presidente dalla carica sarebbe richiesta " per potere attivare eventuali procedimenti civili o penali" (così Mangiameli), allora non ci si sofferma a dovere sul senso dello stesso art. 7.

Militerebbe comunque a sostegno della terza ipotesi il fatto che in quel decreto si affermi sostanzialmente qualcosa che era controverso nel 2004: il Presidente è intoccabile, ovvero egli è a modo suo legibus solutus . E si diceva allora, affermando che la giustizia ordinaria non può distinguere fra atti funzionali e non, quello che si conferma oggi: che nessuna prova che derivi da intercettazione lo potrà mai riguardare; il che vale a tenere in piedi l'equivoco monarchico, fra persona fisica e carica.

Rilevano qui poi altri profili: che ne sarebbe - ad esempio - dell'apertura di un fascicolo e dell'esercizio dell'azione penale, se l'unica prova fosse fornita dalle intercettazioni e queste andassero invece rapidamente eliminate? O anche: quale notitia criminis , se le intercettazioni fossero ammissibili solo ad inchiesta avviata? Questioni al fondo dei discussi progetti di un eventuale "decreto intercettazioni".

Oppure: come si concilierebbe con il divieto assoluto d'intercettazione l'art. 271 del codice di rito penale,  il cui terzo comma recita: " In ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato" - laddove rileva appunto l'inciso finale?

Nel dibattito che è seguito alla emanazione del decreto Napolitano alcuni si sono posti, di contro all'affermazione contenuta nel decreto stesso, il quesito: se il divieto, per il quale si rimanda a quello posto dall'art. 7 della legge n. 219, sia applicabile solo alle intercettazioni dirette o anche a quelle indirette , e/o casuali . Laddove per la verità l'interpretazione favorevole alla non illegittimità delle intercettazioni indirette nei confronti del Presidente della Repubblica nelle opinioni di costituzionalisti del valore di Pace, Mirabelli e De Siervo appare un po' tormentata, più o meno quanto lo fu quella dell'allora ministro Guardasigilli in risposta alla interpellanza Cossiga del 1997. Ma non sarebbe dovuta esserlo, a volersi ricollegare alla giurisprudenza riguardante le intercettazioni nei confronti di parlamentari, sul cui tema la sentenza costituzionale n. 390 del 2007 al punto 5.1 così si esprime: "La disciplina delle intercettazioni indirette - o, più propriamente [...] "casuali" - quale delineata dall'art. 6 della legge n. 140 del 2003, non può ritenersi [...] riconducibile alla previsione dell'art. 68, terzo comma, Cost." (: "Analoga autorizzazione [della Camera cui appartiene] è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazione, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza"); ovvero non dovrebbe esservi, in caso di intercettazioni casuali di conversazioni di parlamentari, poiché essa sarebbe successiva , autorizzazione della Camera di appartenenza. Questione simile o analoga a quella relativa all'art. 7 della legge 219 cit., per cui, se ben comprendo, esso non dovrebbe riguardare qualsiasi tipo di intercettazione.

Laddove - aggiungo - sempre dovrebbe valere, sia che il caso riguardi un parlamentare sia che riguardi il Capo dello Stato, il monito della Consulta: "le disposizioni che sanciscono immunità e prerogative" debbono essere interpretate "nel senso più aderente al testo normativo".

E qui anche, stante la lacuna normativa, potrebbe sorgere un dubbio ulteriore, lo si dica banale o capzioso ma che può forse aiutare a comprendere anche le ragioni dei fautori della non illegittimità (il che significa utilità) delle intercettazioni indirette: si tratterà, dovendolo fare, di distruggere solo la parte d'intercettazione riguardante il Presidente, o l'intera intercettazione (possibilità se leggo bene lasciata aperta dalla sentenza n. 390)? O non piuttosto, al di là delle semplificazioni, si può ritenere che vi sia utilizzo della prova proprio nel fatto che essa contenga un dialogo , e/o che sia in base ai contenuti ed entità dialogici che si possa incriminare chi stesse parlando con il Capo dello Stato?

A chi assegnare insomma la palma del primato: a Beccaria o a Montesquieu?

Da una studiosa (A. Sperti) è stato fatto notare in tempi relativamente recenti come a decorrere da quella che è stata definita (Galiani e altri) "stagione maggioritaria" (successiva cioè e consona alla riforma elettorale del 1993: leggi n. 276 e 277 ) la Presidenza della Repubblica sia venuta sollevando, o comunque in essi si sia trovata coinvolta, conflitti di attribuzione, e cioè: è accaduto alfine qualcosa che in precedenza era ritenuto evento improbabile. Altri (Breda) ha sostenuto che de facto , a causa dell'attivismo presidenziale, l'Italia è forse già diventata una Repubblica semi-presidenziale.

Concetti e aspetti, questi, da ricollegare alla teoria della "intrinseca ambivalenza", ovvero: "[...] quali che siano i poteri nominali conferiti dalla Costituzione scritta, ogni Capo dello Stato ha un sé la duplice potenzialità di ridursi ad organo puramente simbolico oppure, all'altro estremo, ad organo politico preminente. Quei medesimi poteri scritti in Costituzione possono ridursi a mera forma esteriore di atti decisi da altri, o tutto al contrario divenire pieni e indipendenti conferendo al Capo dello Stato una funzione di direzione rispetto agli altri organi costituzionali" (Rescigno, in Commentario della Costituzione , 1978: art. 87, cit. da Abukar Hayo, in Cass. pen ., 2004, fasc. 12).

Da una parte è vero che, stante se vogliamo tale ambivalenza, il Capo dello Stato è stato fatto oggetto negli ultimi vent'anni ad attacchi che mai vi sarebbero stati in altre fasi storiche (si pensi alle s entenze costituzionali n. 129 del 10 luglio 1981: sottrazione dei tesorieri della Presidenza della Repubblica, della Camera e del Senato al giudizio di conto, e 18 maggio 2006 n. 200 : il Guardasigilli contro il capo dello Stato in tema di potere di grazia, con verdetto favorevole al Presidente ); dall'altra è evidente come la sua a fronte di certo quale attivismo istituzionale non sia più ritenibile come una figura simbolica; ma appunto molte cose erano inevitabili ché la figura presidenziale (prerogative e immunità, rapporti con gli altri organi costituzionali, ecc.) si sarebbe dovuta prima o poi meglio definire giuridicamente ma anche eticamente; ovvero, per risalire nel tempo : Rex eris si recte egeris (Isidoro, Ethimologiarum libri ).

E su questo terreno si sono delineate negli ultimi anni due tendenze: l'una incline appunto a una migliore definizione giuridica, l'altra (e oggi si parla qua e là anche di "complotto") incline a sminuirne il peso costituzionale a vantaggio del Presidente-Presidenza del Consiglio, come è dimostrato fra l'altro dalla legge di revisione costituzionale sottoposta con insuccesso nel 2006 a referendum costituzionale.

L'istituto disciplinato dagli art. 83 e ss. della nostra Costituzione succede storicamente a quello del re e concorre - non è perfettamente improprio forse che qualcuno abbia potuto parlare di " trasfigurazione della persona del monarca" (Mangiameli) - a qualificare non solo politologicamente la forma di Stato repubblicana, più di quanto magari non si pensi comunemente o non si dica. E ciò con riferimento a un aspetto forse trascurato: la necessaria distinzione in chiave repubblicana fra la persona (fisica e morale) del Capo dello Stato e la carica (aspetto che il decreto Napolitano si preoccupa di sottolineare) a fronte della identificazione monarchica fra le due.

È vero in generale, a volersi soffermare sul significato della cosiddetta "stagione maggioritaria", che essa è consistita - ed è ciò che continua ad accadere - in una sofferenza delle istituzioni pubbliche. Un periodo storico che non possiamo non definire anche di avanzata delle tecnologie, segnatamente di quelle investigative; tale, nel caso delle intercettazioni e del loro carattere chirurgico ( come qualcuno lo ha definito tempo fa in televisione) , da rendere più problematici i rapporti fra la magistratura e gli altri poteri dello Stato, fra la magistratura e il tentativo istituzionale di rendere inattaccabile ad ogni costo la cd. "maggioranza". Tecnologie investigative e probatorie contro le quali la classe politica è venuta erigendo da tempo l'argine sacro della privacy .

In sostanza, la questione delle intercettazioni è anche la questione della diffusa ostilità del potere politico-partitico - ma non solo -, per come esso si è andato trasformando, nei riguardi della trasparenza e forza documentale delle tecnologie - internet per tutti -; ovvero essa è valsa a provare come politici, economisti e religiosi amino da sempre poggiare la testa sul morbido guanciale delle verità "rivelate" e/o dei silenzi, identificando nelle evidenze fornite dagli strumenti tecnici soprattutto elettronici e digitali (e molto vale questo discorso per l'informazione giornalistica e televisiva) pericoli di destabilizzazione e qualcosa che si teme di non poter addomesticare.

Ma è vero anche che se le intercettazioni sono l'occasione e però lo sono anche le dichiarazioni testimoniali (per quanto emerso tempo fa in un procedimento per concorso esterno di politici in associazione mafiosa), allora la causa presumibilmente non è negli strumenti più o meno invasivi ma in un invecchiamento e crescita d'immoralità della classe politica e quindi in una crisi dell'autorità. Ed è tutt'altro che da escludere che anche la questione dell'art. 90 venga a innestarsi per l'appunto in tale contesto.

Più crisi dell'autorità pertanto che non progresso tecnologico, per quanto, considerato il tenore dei contrasti, a questo punto è dato sospettare - anche se l'una cosa aiuta a comprendere l'altra. Ovvero p ubblici poteri che tendono a chiudersi nei loro assetti corporativi o autorganizzativi - secondo anche quanto espresso in sede di conflitto nella sentenza n. 129 del 10 luglio 1981 ( : " i rapporti fra i predetti organi costituzionali [Presidenza della Repubblica, della Camera e del Senato] e la Corte dei conti [...] sono disciplinati da una consuetudine formatasi sotto lo statuto albertino e non interrotta dall'instaurazione dell'ordinamento repubblicano"), traducendo appunto il munus publicum - e il vizio è decisamente antico - in fonte di privilegi e diseguaglianze .

Al che qualcuno - e la cosa è accaduta - potrebbe osservare: perché allora non raccogliere tutto questo e farne una legge in positivo e di carattere generale? Insomma: è pensabile una lex generalis sugli arcana imperii o sulla ragion di Stato più che un provvedimento eccezionale sulle intercettazioni - e in tal caso tutti vi si dovranno adeguare -; o non lo è e allora perché non lo è? Ma in certo senso questa era già, o aveva tentato di esserlo, legge dello Stato.

Non possono essere taciuti infatti i legami fra il decreto Napolitano e il caso (si veda la sentenza costituzionale n. 262 del 19 ottobre 2009) della legge 23 luglio 2008 n. 124 (: Disposizioni in materia di sospensione del processo penale nei confronti delle alte cariche dello Stato), il cosiddetto "lodo Alfano"; il cui art. 1 è stato assoggettato a verdetto costituzionale e censurato per contrasto sia con il principio di eguaglianza sia con quello secondo il quale non la legge formale ordinaria ma solo quella di revisione può modificare la Costituzione formale.

Il nesso in certo senso fa qualcosa di più che parlare da sé, come può provare il testo della legge n. 124: "Salvi i casi previsti dagli articoli 90 e 96 della Costituzione, i processi penali nei confronti dei soggetti che rivestono la qualità di Presidente della Repubblica, di Presidente del Senato della Repubblica, di Presidente della Camera dei deputati e di Presidente del Consiglio dei Ministri sono sospesi dalla data di assunzione e fino alla cessazione della carica o della funzione. La sospensione si applica anche ai processi penali per fatti antecedenti l'assunzione della carica o della funzione". Laddove peraltro l'allusione agli articoli costituzionali ripete la vaghezza e genericità degli stessi, secondo certo stile redazionale di certa quale classe politica.

Dice dunque la sentenza n. 262 riallacciandosi alla sent. n. 24 del 2004 (: q.l.c. dell'art. 1, comma 2, in relazione al comma 1, della legge 20 giugno 2003 n. 140 - : Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato: cd. "lodo Schifani") che "la disposizione censurata si pone contemporaneamente in contrasto sia con l'art. 3 Cost., perché - con riferimento alle norme costituzionali in materia di prerogative - introduce una ingiustificata eccezione al suddetto principio di uguaglianza davanti alla giurisdizione, sia con l'art. 138 Cost., perché tale eccezione si sarebbe dovuta introdurre, se mai, con disposizione di rango costituzionale".

Con riguardo all'art. 138 essa anche afferma: il "legislatore ordinario, in tema di prerogative (e cioè di immunità intese in senso ampio), può intervenire solo per attuare, sul piano procedimentale, il dettato costituzionale, essendogli preclusa ogni eventuale integrazione o estensione di tale dettato", ovvero "secondo quanto deciso con sentenza n. 148 del 1983" è "esclusa la competenza del legislatore ordinario in materia di immunità" e quindi: "disposizioni normative riguardanti le prerogative, l'attività e quant'altro di organi costituzionali richiedono il procedimento di revisione costituzionale. E ciò in quanto la circostanza che l'attività di detti organi sia disciplinata tramite la previsione di un'ipotesi di sospensione del processo penale, non esclude che in realtà essa riguardi non già il regolare funzionamento del processo, bensì le prerogative di organi costituzionali e comunque materie già riservate dal legislatore costituente alla Costituzione".

Molto lavoro dunque nell'attuale fase storica per la Corte costituzionale, fra questioni di legittimità e conflitti di attribuzione, fra i quali sembra esservi oggettivamente intreccio. Ed è in tale contesto che quei legami di cui si diceva si confermano, laddove la sentenza n. 262 si occupa anche dell'art. 90 cost., riallacciandosi a quanto sostenuto dal giudice a quo : che "già dai lavori dell'Assemblea costituente si desume che la non perseguibilità per reati extrafunzionali nei confronti del Presidente della Repubblica avrebbe dovuto essere prevista con legge costituzionale".

Dunque alle domande: ma sapevano i nostri Padri Costituenti, non andando oltre la redazione dell'art. 90, che essi stavano dando una soluzione politica a questioni giuridiche e dunque che la soluzione avrebbe rischiato di non onorare il diritto? O forse essi semplicisticamente auspicavano soluzioni giuridiche a problemi politici? Credevano bonariamente magari ma con scarso realismo che il nostro Paese avrebbe riconosciuto (con stile quasi "anglosassone": penso al caso Watergate , che coinvolse il presidente americano Nixon, o addirittura all' impeachment del ministro inglese Latimer, risalente al 1376) comunque la sovranità della legge, che è ciò di cui da anni invece si ha la crisi?

Sembra quindi che per spiegare certe difficoltà applicative dell'art. 90 cost. non sia sufficiente sottolineare l'astrattezza e generalità di questa o quella disposizione legislativa, segnatamente di quelle costituzionali, o evidenti e prevedibili carenze empiriche; e che già spieghino di più le lacune dell'ordinamento (l'inadeguatezza delle norme, come ha scritto Paladin, in Enc. dir. ) quelle che ne sono state le ragioni politiche; dunque che molto sia dovuto al fatto, provato da certe forzature legislative, che lì s'incontrano e si confrontano diritto e politica. E meglio: lì esse anche si confondono.

Difficile dunque oggettivamente stabilire la distinzione fra di essi, a certi livelli - quasi impossibile, aveva avvertito Crisafulli, una "spoliticizzazione" di situazioni come i conflitti che coinvolgano il Capo dello Stato -; il che rende forse inevitabile, soprattutto in periodi storici giuridicamente inquieti, l'attivazione e formalizzazione dei conflitti.

Se il problema non si presenta come una mera questione di tecnica giuridica, questo rende le cose meno rassicuranti. Se è vero che la magistratura come si sente ripetere da tempo "fa politica" ovvero si presta a strumentalizzazioni politiche, magari inserendosi in un clima di destabilizzazione o di paralisi istituzionale, allora è ragionevole dedurne che la questione non è nemmeno soggettivamente ma di più oggettivamente politica. Il che non significa che essa non riguardi lo stesso Stato di diritto e cioè i termini e i modi in cui il diritto può garantire per lo Stato, in relazione a precise epoche storiche.

È forse che il Rechtsstaat , soprattutto nella materia costituzionale, andrebbe costantemente quantificato : questo sì e questo no. E se ciò è vero per il nostro tema, allora lo è anche per ogni altro tema giuridico, ché il diritto oggettivo è fatto di connessioni.

"Il problema dell'individuazione dei limiti quantitativi e qualitativi delle prerogative [costituzionali] - si legge in un passaggio della citata sentenza n. 262 del 2009 - assume una particolare importanza nello Stato di diritto, perché, da un lato, come già rilevato da questa Corte, 'alle origini della formazione dello Stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione' ( sentenza n. 24 del 2004 ) e, dall'altro, gli indicati istituti di protezione non solo implicano necessariamente una deroga al suddetto principio, ma sono anche diretti a realizzare un delicato ed essenziale equilibrio tra i diversi poteri dello Stato, potendo incidere sulla funzione politica propria dei diversi organi. Questa complessiva architettura istituzionale, ispirata ai principi della divisione dei poteri e del loro equilibrio, esige che la disciplina delle prerogative contenuta nel testo della Costituzione debba essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali; sistema che non è consentito al legislatore ordinario alterare né in peius né in melius ".